Prefazione  a   Il complesso dell’usurpatore   di  Domenica Mazzù

 

  C’è un sapere che sembra disconosciuto; è inscritto negli antichi miti, nei segreti dell’inconscio, nelle immagini del sogno, nei misteri della vita immaginale. Non riguarda soltanto l’universo dei poeti e degli artisti, perché custodisce e governa per la maggior parte, se non forse interamente, i nostri destini. Appartiene al mondo della simbolica. Il mondo simbolico, nelle sue basi costitutive, non ha tempo storico, perché fa parte di tutti i tempi delle civiltà. E’ inscindibile dai mondi vitali, ai quali appartiene l’umanità, e quindi è presente in ogni società, dalla più arcaica alla più tecnologizzata o istituzionalizzata. 
  In molti suoi aspetti la simbolica è stata da lungo tempo oggetto di studio, soprattutto da parte dell’estetica, dell’antropologia e della psicologia, in contesti differenziati e topici; per lungo tempo, però solo sporadicamente e in maniera incidentale si è affacciata nelle scienze politiche e socio-istituzionalistiche. Ma in questi campi i pochissimi che le hanno prestato attenzione (si pensi, per esempio, dopo un Miguel García Pelayo, ad un Murray Edelman, per citare un autore che ha avuto successo in diversi paesi) in effetti ne hanno colto piuttosto i lati occasionali ed esteriori o, per dire così, esclusivamente fenomenici, oppure – basti citare per tutti il nome più illustre, Ernst Cassirer – come specifica forma di linguaggio. 
  E’ merito, invece, di un gruppo di studiosi italiani di aver man mano dato consistenza ad un indirizzo di ricerca, che ha scoperto nella simbolica una nuova fonte di conoscenza.  Le indagini condotte nel suo ambito hanno incominciato a dare i loro frutti proprio nel campo degli studi politologici, e più in particolare, anche se non soltanto, della filosofia politica. Lo studio della simbolica politica – campo che appena ora sta incominciando ad estendersi verso quello della simbolica giuridica - non costituisce solo un oggetto di analisi, ma anche una vera e propria prospettiva di ricerca che sta configurandosi a pieno titolo anche come specifica metodologia di indagine, con propri criteri e strumenti di osservazione e di interpretazione dei fenomeni sociali. Questo indirizzo di studio, che ha ormai assunto i caratteri di una scuola scientifica, ha avuto i suoi esordi presso l’Università di Messina tra la fine degli anni settanta e gli inizi degli anni ottanta, coinvolgendo ben presto studiosi di molteplici provenienze. Attualmente ha preso corpo intorno ad esso una consistente rete intercomunicante di iniziative, che comprende ricerche, convegni, seminari, corsi di specializzazione e pubblicazioni. 
  L’importanza di avere cognizione delle dimensioni simboliche operanti nella vita sociale, e nella politicità in specie, è fuori discussione. L’ignoranza della loro azione, che predilige molto spesso le vie più sotterranee, non ne elimina affatto la presenza. Anzi, ne rende più consistenti gli effetti e le fa del tutto incontrollabili e imprevedibili, perciò altresì pericolose, perché agiscono in forme occulte, protette dalle ombre dell’inconscio collettivo, dove abitano forme archetipali insopprimibili. “…si può tentare di distruggere la mitologia, ma non si distruggono i miti, residui irriducibili, ciò che nonostante tutto resta”. 
  Questi accenni, per quanto generici, sono necessari per comprendere meglio l’inquadramento scientifico de Il complesso dell’usurpatore, la cui prima edizione risale al 1986. Nella sua singolarità, il libro occupa una posizione del tutto speciale. Dobbiamo considerarlo, sostanzialmente, la prima monografia perfettamente consapevole di operare nell’intimo dei tortuosi percorsi della simbolica politica, non soltanto prendendo questa ad oggetto di studio, ma altresì, come si diceva, scoprendone le prospettive metodologiche. Non c’è enfasi nel definirla anche la prima monografia che in una visione filosofico-politica delinea, con geniali intuizioni, i fondamenti teoretici dell’analisi simbologica. Si tratta di un lavoro di avanguardia nel migliore dei sensi, spiccatamente originale nel suo coraggio speculativo, che si inoltra in maniera decisa e puntuale negli orizzonti abissali dell’ermeneutica simbolica.
  Leggendolo con la dovuta attenzione si scopre, infatti, come il percorso elabori il suo oggetto fino al punto di individuare strumenti di analisi inediti e sorprendentemente efficaci; essi scaturiscono dalla perspicua penetrazione ermeneutica con cui l’autrice opera, avvincente non soltanto per il lettore che si trovi ad affrontare per la prima volta le tematiche simboliche, ma altresì per lo specialista, che si sente indotto a ripensare molte sue acquisizioni e sollecitato ad intraprendere un cammino aperto a nuovi orizzonti di ricerca.  Sulle prospettive squisitamente metodologiche della simbolica l’autrice ritornerà in un suo altro volume, Logica e mitologica del potere politico (Giappichelli, Torino, 1990). 
  Il lettore riflessivo si accorgerà che ne Il complesso dell’usurpatore non c’è pagina, non c’è passaggio che siano superflui; tutta l’elaborazione concettuale è pervasa da una lucidissima tensione teoretica. E’ una tensione coinvolgente, che tiene sospesi e dinamicamente protesi lungo il percorso argomentativo, un poco come accade, in musica, nell’ascolto di taluni “fugati”. 
 Il tema centrale si può considerare la legittimazione del potere politico. La materia affrontata si presenta in partenza, per così dire, grezza ed oscura, come tutto ciò che si sa essere presente ed incombente, ma senza essere dotato di una propria forma, di una propria sostanza definita, di un proprio spazio che lo circoscriva. Si tratta, sostanzialmente, della infondatezza naturale e dell’arbitrarietà delle fondazioni razionali del potere politico, che trovano le loro radici nel paradigma emblematico del conflitto tra fratelli, di cui l’autrice ricostruisce la struttura archetipale, ponendo le basi di una sua lettura psicoteoretica.  Ogni potere costituito nutre in sé una più o meno velata insicurezza circa la propria fondatezza ed è, sottilmente o marcatamente, attraversato dall’ombroso sospetto di un equilibrio infranto: è la indefinita sensazione di essere in qualche misura usurpatore. Il fratricidio originario narrato da miti ancestrali ne simboleggia la possibile realtà. Nel lavoro di Domenica Mazzù la versione biblica di questo paradigma primordiale è sottoposta ad una profonda analisi, che ci ripropone i fondamenti del rapporto intersoggettivo, come struttura prepolitica, in termini che contribuiscono a gettare luce sul carattere meramente ideologico delle descrizioni razionalistiche dello stato di natura o sull’elusività delle teorie convenzionalistiche. Infatti il “detentore del potere, spogliandosi del proprio sé reale, procede fatalmente verso la messa a nudo delle proprie origini, dinanzi alle quali, però, sente, in un certo qual modo, che è preferibile il dubbio”. (p. 53, ed. 1986) 
  Questa preferenza (del dubbio) si traduce nei vari mascheramenti di cui si riveste la legittimazione, razionalistici, ideologici o mitici che siano. Nella stessa esistenza degli ordinamenti politici e nelle costruzione degli edifici istituzionali si legge la mancata risposta alla domanda primordiale, variamente ripresa nel libro di Domenica Mazzù: “chi è il padre?”, “perché l’autorità?”, “donde il potere?”, “quale la sua origine e la sua motivazione?” e, in termini moderni e giuridicizzanti, “chi e che cosa legittima il potere?”, “chi è in grado di trasmetterlo legittimamente?”. Ciò che dà da pensare è che dove c’è potere, e quindi in ogni costruzione politica, sempre si aggira lo spettro di Abele, che, una volta ucciso dal fratello Caino, non può più ritornare in vita, ma si ripresenta come ombra del padre, o anche come quella del figlio, ossia come immagine tormentatrice, del dominante o del dominato. 
  A partire da qui si intrecciano altre diverse oscurità che popolano quella mancata risposta: vanno dall’ombra di Abele che potrebbe essere pensata anche come quella del padre ucciso - che ingenera il senso di colpa (ipotesi di stampo freudiano) e che essendo ombra non può essere a sua volta uccisa – fino all’ipotesi, che emerge nelle ultime pagine del libro, della nostalgia per la perdita della madre, come effetto di una riproduzione del potere che si esercita unilateralmente, ossia quale autogenerazione interna ad un principio maschile che non sa o non può ricongiungersi con un principio femminile. (Non va dimenticato che ogni sfera vitale – e ad essa appartengono, ovviamente, la società e la politicità – si compone sempre di quei due principî, e che laddove uno dei due viene prevaricato dall’altro, l’organismo vitale non ha scampo: o si atrofizza o piomba nel caos.)
  Non ha alcun senso qui elencare i temi e i passaggi che figurano nel libro di Domenica Mazzù; entrare, poi, nel merito di singoli argomenti trattati non è possibile senza darvi il respiro di un saggio, come richiederebbe altresì il prospettare i numerosi quesiti che vengono aperti. Non mi esimo, però, da invitare ad una riflessione. 
  Il quadro generale si focalizza sul problema della legittimità e illegittimità del potere e tocca le radici del dramma che governa la politicità nella storia e che ne disegna i personaggi. Non vi è alcun dubbio che esso rappresenti, in maniera più particolare, la situazione di una società secolarizzata, o, meglio, desacralizzata, o ne delinei almeno le condizioni di avvio. Ma si pone una domanda: ugualmente dovrebbe accadere nell’ambito di una società sacrale, dove vige un ordine cosmico precostituito, nel quale il problema del potere non si pone, essendo il tutto già preordinato dalla divinità (o come se lo fosse)? La risposta parrebbe negativa in una società sacrale, dove l’essere e l’apparire coincidono, dove non si dà differenza tra trascendenza ed immanenza, dove non c’è spazio, in sostanza, per porre domande sulle motivazioni, ma ci si affida alla manifestazione visibile e alla ritualità; nella società sacrale non c’è ricerca e tormento di verità, perché questa è data dal sacro stesso. Tuttavia si può correttamente ribattere: è vero che il sacro rivela, ma esso forse anche non cela? E la sacertà di un potere non è forse il nascondimento per eccellenza delle sue origini?  Il quesito non è ozioso. L’importanza del confronto con la società sacrale sta nei suoi caratteri peculiari: ogni studioso di simbolica sa che essa è da considerarsi la matrice totalizzante dei principî d’ordine che presiedono alle società secolarizzate o desacralizzate, con tutte le conseguenze che seguono anche per una corretta interpretazione degli ordinamenti politici in vigore. Orbene, la prospettiva teoretica sviluppata dal libro di Domenica Mazzù ci fornisce i presupposti di base anche per discutere questo problema di notevole rilevanza. 
  Per concludere questa mia breve introduzione, posso ancora sottolineare che la compattezza ispirativa de Il complesso dell’usurpatore, nato nella teoresi della filosofia politica, non solo ne estende legittimamente i confini in campi che si è appena ora incominciato a praticare e che si preannunciano dotati della più vasta e profonda fertilità, ma ci offre anche indispensabili suggerimenti per addentrarci in essi, soprattutto in virtù delle numerose lucide intuizioni che costellano la complessa trama del libro e in virtù della felice attivazione di concetti-chiave di psicoteoretica, che possiamo considerare la dimensione teoretica specifica della simbolica.

Giulio M. Chiodi