GIULIO MARIA CHIODI

IL MITO POLITICO COME COSCIENZA COLLETTIVA  -  Hermeneutica ( 2011 )

 

1. Simbolica ed epocalità

  

      Non mi propongo di analizzare la complessa natura del mito, né i concetti che diversamente ne hanno elaborato l’interpretazione. Non parlerò, cioè, né da mitologo, né da antropologo, ma da politologo. Cercherò, dunque, di concentrare l’attenzione sul genere di mito che in modo particolare attiene alla dimensione della politicità. La specificazione di «coscienza collettiva», che figura nel titolo, vuole appunto sottolineare questa specificità. Aggiungo che il mio proposito è di raccogliere le indicazioni essenziali, che ci permettano di ragionare sulla portata del tema, in maniera tale che ne possiamo trarre dei lumi soprattutto in merito all’attualità.

      La consapevolezza delle cose del tempo si acquista più a fondo osservandole con l’occhio dello storico e con quello del filosofo; il primo vede i fatti, il secondo le idee, ma il loro insieme può anche produrre una visione strabica e malcerta. Per comprendere il tempo che si attraversa occorre il terzo occhio, l’occhio epocale, l’unico capace di fondere, senza confondere, la visione degli altri due. Esso è dotato di uno sguardo stereoscopico e liminare insieme. Liminare significa capace di osservare nel contempo quanto è visibile e documentabile e quanto esprime condizioni del vissuto che riguardano l’immaginazione e le dimensioni inconsce dell’anima collettiva. Il mito politico, come diremo, ha direttamente a che fare con una coscienza liminare.

      Orientarsi nelle complessità del presente richiede – come del resto accade per ogni epoca – possedere dei punti cardinali, che consentano di stabilire quello che amo definire il «punto-epoca», in analogia col punto-nave, che stabilisce la posizione di un’imbarcazione, necessaria per mantenere la rotta. Tre sono i fattori orientativi che ritengo debbano essere tenuti presenti nell’orizzonte delle nostre considerazioni, onde renderle realistiche. Essi sono: l’autoriproduzione cieca delle tecnologie; la burocratizzazione procedurale; l’individualismo di massa. Mi è consueto paragonare tali fattori a una sorta di drago tricefalo, col quale dobbiamo comunque fare i conti. Riassumiamone in breve la specifica natura.

      1) Autoriproduzione cieca delle tecnologie. L’evoluzione delle risorse umane ha portato ad una graduale sostituzione dell’elemento naturale con quello artificiale. In una prima fase la macchina ha sostituito la forza umana e gli strumenti artigianali, che ne erano un prolungamento potenziato, lasciando all’uomo la disponibilità delle facoltà intellettive, arrivando all’impiego di seghe elettriche, martelli pneumatici, gru e perforatrici. Siamo nell’ordine della meccanica.

      In un secondo tempo, che possiamo dire tuttora in espansione, alla macchina sono state trasferite anche le funzioni fino allora riservate al cervello umano. L’avvento delle tecnologie elettroniche non ha soltanto preso il posto della memoria e dell’informazione, ma si è assunto anche l’onere delle più complesse operazioni logiche, mediante analisi e calcoli nonché le più svariate elaborazioni delle conoscenze, giungendo a controllare la materia con intelligenze artificiali e procedimenti insostenibili per la semplice attività mentale. Ormai non si dà progetto o programmazione che non siano affidati a processi della macchina tecnologica. In tal modo lo sviluppo delle conoscenze e delle tecniche obbedisce sempre più a criteri di autoriproduzione, che definiamo cieca, giacché sempre meno condizionata dalla valutazione puramente umana. Spesso si ha la precisa sensazione che la macchina, da strumento dell’uomo, tende a strumentalizzare l’uomo. Come già la filosofia hegeliana aveva intravisto, lo strumento tende a prevalere su chi lo usa e addirittura sul fine da questi perseguito. Siamo ancora nell’ordine della sfera intellettiva; ma a questo punto stiamo già varcando la soglia di una terza fase, nella quale al trasferimento alle tecniche della forza fisica e del potenziale logico si sta aggiungendo quello della nostra stessa entità psico-fisica. Le biotecnologie non si limitano più a sostituire parti e funzioni organiche del nostro corpo, ma si apprestano altresì alla programmazione dei caratteri dell’essere umano, sia fisici che psico-morali. Si profila, così, una tormentata messa in dubbio tanto delle identità individuali quanto di quelle, addirittura, della intera specie in quanto tale. Siamo nell’ordine della sfera organica.

      In Umano troppo umano Nietzsche sosteneva che la macchina era sì un potente prodotto della mente umana, ma che degli uomini metteva in movimento solo i sentimenti più bassi, addormentandone l’anima [1]. Si può condividere o respingere questo pensiero, aggiornarlo o adattarlo e distorcerlo, ma il fenomeno non è del tutto contestabile. Parleremo di miti politici, ma nelle nostre valutazioni sul punto-epoca non possiamo ignorare le dinamiche dell’autoriproduzione cieca delle tecnologie, dalla quale si può diventare pericolosamente troppo dipendenti. Non è del tutto assurdo pensare che del processo di innovazione tecnologica si può anche perdere completamente il controllo, dal momento che la tecnologia tende a sostituire i compiti della cultura e, paradossalmente, si sostituisce perfino alla scienza. L’episteme tende tende in tal modo a dipendere dalla techne.

      2) La burocratizzazione meramente procedurale è il secondo punto cardinale dell’orizzonte caratterizzante la nostra epoca. In tale genere di burocratizzazione dobbiamo individuare la vera e concreta forma di governo che attualmente si impone nella sfera politica. Si tratta di una modalità di governo che è applicata indipendentemente da ogni programma ideologico e che è perfettamente coerente tanto col fenomeno dell’autoriproduzione cieca delle tecnologie, quanto col seguente, di cui più avanti diremo. L’aggettivo «procedurale» sta ad indicare che si tratta di un fenomeno di burocratismo, che non ha a che fare con l’amministrazione vera e propria in quanto tale, che è ovviamente funzionale e irrinunciabile nell’organizzazione di governo. Alludiamo ad un’altra realtà, pesantemente incombente, che fagocita ogni scelta, anche indirettamente di portata pubblica, formalizzandola per vie normative, legistiche e regolamentari, sì da far prevalere gli strumenti formali sopra i contenuti e sopra le finalità. In pratica, mentre le necessità amministrative sono poste al servizio degli obbiettivi, il burocratismo di cui parliamo si serve di questi ultimi come pretesti della propria autoriproduzione. L’adozione di criteri ispirati per lo più al geometrismo giuridico e ad un apparente coinvolgimento delle cittadinanze – in modo tale, per cui istanze, programmi fatti, persone, relazioni vengono ridotti soltanto ad entità seriali e generalizzate – si risolve nel continuo accrescimento dell’articolazione in uffici, commissioni, ruoli, competenze istituzionali e soprattutto adempimenti di formalità, che si risolvono in una sorta di patologia procedurale, che investe l’intero sistema di rapporti collettivi. Qualsiasi genere di istanza può aspirare ad essere recepita a condizione di essere assorbita dal proceduralismo, che in ultima analisi finisce per svuotarla dei suoi contenuti o per alterarla, dislocandola nelle dinamiche dei suoi apparati, in base a principî genericamente ordinativi e protocollari, falsamente tutorî e tanto più opachi quanto più li si vogliono trasparenti. L’esito è nella sostituzione delle competenze sostanziali o funzionali con quelle astrattamente normative e proceduralmente prefigurate.

      Nella sostanza, il buroproceduralismo, che penetra capillarmente in tutte le strutture istituzionali anche private, e che si frappone tra singoli cittadini e autorità o obbiettivi proposti, comporta da una parte l’inaridimento delle iniziative, e dall’altra la deresponsabilizzazione dei soggetti operanti. Il rispetto dei protocolli e delle regole procedurali esonera, infatti, da ogni responsabilità sull’operato dei soggetti; ogni responsabilità è riversata sull’ufficio e sulla procedura, che di fatto equivale al suo annullamento o al riversamento sul cittadino delle eventuali conseguenze. Salvaguardata la procedura, tutto il resto diventa irrilevante o estraneo alla rilevanza pubblica. Il buroproceduralismo assomiglia ad un’irresponsabilità pubblica programmata, kafkianamente fatta di muri respingenti o di risucchi alteratori o di specchi e maglie deformanti. La proliferazione generalizzata, sistematica e sanzionata, soffoca la vitalità stessa della sfera politica e la depaupera di ogni senso, alla stregua di un rito privo di mito, cioè fine a se stesso. Preziose osservazioni, che preconizzano questo quadro, sono state avanzate dai noti studi di Max Weber e di Robert Michels, dove ne mettono in evidenza le prime avvisaglie.

      3) L’individualismo di massa. Questo terzo fenomeno si instaura paradigmandosi su un principio di uguaglianza. Il mercato internazionale e le organizzazioni mondiali, che provocano a ripetizione comportamenti omologanti, ormai usi ad essere definiti col termine di globalizzazione, sono gli agenti principali dell’individualismo di massa. Essi ragionano – e diversamente non potrebbero – in maniera seriale.

      Quando, per esempio, sentiamo parlare con insistenza di diritti umani, al di là delle dichiarazioni benintenzionate, l’individuo viene di fatto considerato in maniera certamente patetica, ma altresì seriale, non molto di più che singolo esemplare di una specie che si vuole onorare di eccezionale dignità. In realtà, l’individuo è sostanzialmente avulso da effettivi contesti, non solo di appartenenza culturale, di costume e di credenze, ma altresì personali nella loro irripetibilità. L’individuo, in ultima analisi, viene concepito in un contesto che si ispira ad un astratto principio egualitario individualizzato. Si tratta di un fattore risalente a quel genere di indistinzione che opera nella natura stessa della massa. Pensare, per principio, un individuo uguale a qualsiasi altro, al di fuori di contesti affettivi, culturali e situazionali di appartenenza – così come dichiarare un cittadino uguale ad un altro all’interno di un’ipotetica cittadinanza universale – e poi assumere tale pensiero come criterio primario di una regola sociale universale, significa addivenire all’idea che ognuno sia un semplice numero, senza qualità e condizioni realmente personali di appartenenza. Siamo di fronte a processi che cancellano strutture relazionali e di appartenenza, vanificano stili di vita, costumi, culture, popoli in quanto tali ed ogni genere di effettiva singolarità personale e collettiva. Il processo tendenziale è in direzione di una regressione al biologico e al biopatico, che sono condizioni riducibili a significanti puri, ossia incapaci di produrre significanza. Individualismo, massificazione e affermazione di uguaglianza tra individui si coniugano vicendevolmente. Uguaglianza, nel quadro dell’individualismo di massa, coincide con indifferenza; indifferenza agisce qui nel doppio significato descrittivo e morale, ossia di non differenziazione e di disinteresse alla singolarità.

      Decisivo in proposito è il ruolo svolto dalla comunicazione di massa, che coltiva l’opinionismo sociale, ostile alle competenze critiche in quanto tali, ed è omologante i vari modelli comportamentali. Col linguaggio di Aristotele si può focalizzare il quadro: i media fungono da moderni retori, i prodotti di mercato da moderni analitici, la finanza rappresenta i moderni dialettici. La comunicazione generalizzata – che subissa anche con oggetti materiali la collettività di usi quotidiani e di informazioni, sostanzialmente inutilizzabili e frastornanti – fa piuttosto la parte di anima della massa. La massa di cui parliamo – teniamolo in debito conto – non è tipologicamente assimilabile alla massa che si forma nei regimi totalitari (i due grandi esempi novecenteschi sono, ovviamente, quelli del nazismo e del comunismo). Come presupposto di base l’individualismo di massa non si definisce in rapporto a un nemico – tutti, per principio, devono sentirsi amici – mentre il nemico è figura essenziale e costituiva della massa totalitaria. Evidenti le conseguenze sulle rispettive etiche e sul modello di individuo che considerano esemplare [2].

      Sono intuitive le strette complementarità e le congruenze interne delle tre dinamiche ora accennate che fanno di esse un tutt’uno. Quali che siano le vedute che si seguano, ignorare tali dinamiche significa brancolare nell’irrealtà; appoggiarne acriticamente gli sviluppi significa muovere attivamente o passivamente verso il nulla. Qualsiasi obbiettivo ci si proponga, dunque, e qualsiasi valutazione si effettui della realtà e delle aspettative del momento, richiedono di adottare i tre fenomeni epocali sopra indicati come criteri di orientamento delle scelte, ma al tempo stesso di saperli tenere a misurata distanza.

 

 

2. Prima approssimazione al concetto di mito politico

 

      Possiamo ora incominciare ad introdurre i primi cenni al concetto di «mito».

     È intuitiva la difficoltà d’identificare miti aggregativi sufficientemente stabili in un quadro dominato dall’incombenza delle tre suddette dinamiche, congiuntamente operanti. Ci possiamo chiedere come si è giunti a contemplare questo orizzonte, senza necessariamente perderci nei meandri delle causalità storiche. Il riferimento alle complesse vicende che riassumiamo sotto il concetto, non sempre pacifico, di secolarizzazione è qui d’obbligo. Per raffigurare in maniera complessiva il fenomeno della secolarizzazione in chiave esclusivamente simbolica, sono consueto ricorrere all’immagine della piramide.

      Prima dell’avvento della cosiddetta modernità – segnatamente ancora in età medievale – il vertice della piramide, dal quale metaforicamente osservare il mondo, era indiscutibilmente posto in alto, per così dire nei cieli, sotto l’occhio di Dio. Ciò comportava che la spiegazione delle cose, fondata e data per incontrovertibile, era cercata rispondendo in ultima analisi alle domande: «qual è, sulle questioni che mi pongo, il punto di vista di Dio? della volontà o della ragione divina? come risolvere i problemi in sintonia col pensiero divino e con la Rivelazione? come interpretare i segni rivelati oppure rivelativi, che la sua potenza ha messo a disposizione dell’uomo?» Altrimenti formulati, i quesiti si compendiano in uno: «Come far rientrare nell’ordine della creazione, secondo la volontà o la ragione di Dio, le risposte che devo dare?» Cercare di osservare il mondo in armonia con l’ordine divino della creazione significa porre il punto di vista veritativo (ossia il vertice della ideale piramide) in una posizione apofatica, infinita e indefinibile, la quale osserva il mondo catafatico, finito, definibile: è guardare il finito da un punto di vista infinito, il commensurabile dall’incommensurabile. Dobbiamo a considerare questa posizione come fondata su principî rivelativi, sì che, nella sua pienezza, può essere identificata come una posizione sostanzialmente sacrale.

      Quando il principio determinativo delle cose – comunque lo si interpreti nella sua natura e nei suoi effetti – è situato in una posizione di trascendenza o in una fonte comunque numinosa, ossia ritenuta non prodotta né dalla libera scelta di esseri umani né dall’ordine naturale, ci troviamo di fronte ad una realtà mitico-rivelativa. Spieghiamo, di prima approssimazione, i due termini di questa definizione.

      Rivelativo indica la manifestazione di una potenza superiore, che è al di là delle capacità di controllo umane; manifestazione, quindi, di una potenza sovrumana, alla quale ci si sente soggetti o alla quale si accede soltanto per connaturata partecipazione o per ritualità. La sovrumanità e la soprannaturalità comportano che la rappresentazione di tale manifestazione sia concepibile soltanto in un contesto mitico. In sostanza è essa stessa un mito, ossia non è costruita noeticamente, non è una costruzione né induttiva né deduttiva; e nemmeno la si può dire ipotetica, e nemmeno volontaristica, concordata, opportunisticamente o utilitaristicamente individuata, funzionalistica et similia. Il fattore decisivo, per averne una nozione, è che si tratta di una realtà di natura sacrale, e che deve essere considerata nel suo insieme come espressa o esprimentesi secondo un punto prospettico superiore, superordinato ad ogni riduzione intellettiva, che non può che darsi da sé per via rivelativa. La tesi, che sostengo in merito, ritiene che la sacralità, in tal modo intesa, rappresenta la matrice storica, simbolica e concettuale di quanto siamo consueti definire «mito» in un contesto moderno. Matrice storica, perché la nostra civiltà è direttamente tributaria del cristianesimo, ma prima ancora di quelle antiche, soprattutto mesopotamiche ed egizia e poi ebraica; simbolica, perché le strutture identitarie proprie del nostro mondo simbolico hanno trovato in quelle società sacrali le forme di espressione costitutive, nonché più intense e complete; concettuale, perché la definizione di mito, come mostrerò più avanti, è plasmata sul modello della manifestazione sacrale, nella quale cogliamo l’esperienza originaria della stessa mitopoiesi.

      Possiamo comprendere bene, in un’ottica simbolica, la modernità come avvio, e più tardi risultato, di un processo di secolarizzazione (qui direi meglio di desacralizzazione), se immaginiamo un capovolgimento della immaginaria piramide, di cui parlavamo, in maniera tale da porre il suo vertice non più in cielo, ma in terra. Il punto di vista, così, non è più situato nell’infinito e indefinibile, che guarda nel finito e definibile, ma è posto nel finito e definito, rovesciando il rapporto cielo-terra.

      Porre il punto di vista nel terreno o nel naturale e non più nel celeste o soprannaturale è il presupposto dell’introduzione della prospettiva. La prospettiva è la più efficace chiave di lettura di tutta la modernità. La teorizzazione della prospettiva e delle sue più elementari ed immediate applicazioni sul piano visivo è dovuta a grandi artisti rinascimentali, come Piero Della Francesca, Leon Battista Alberti, Filippo Brunelleschi, Leonardo da Vinci, Albrecht Dürer ed altri ancora. Non è certo un dato casuale che i teorici della prospettiva, per spiegare la visione prospettica, fondandola su criteri geometrici e di attraversamenti di piani, anziché su criteri ottici, ricorrano precisamente all’immagine della piramide, situando i punti di fuga nel suo vertice o sui suoi simmetrici speculari. Ma l’importanza della visione prospettica delle cose non si arresta agli aspetti puramente visivi, alle rappresentazioni pittoriche o alla distribuzione e costruzione di spazi geometrici e architettonici. La visione prospettica rappresenta, meglio di ogni altro, la sensibilità umanistica, impostasi a partire dalle tesi sulla doppia verità (umano-rituale e divina) e pone al centro del mondo l’uomo, come hanno teorizzato personaggi come Pico Della Mirandola, Marsilio Ficino o il Bovillo. Ma, soprattutto, va detto che il concetto di prospettiva è alla radice della nascita della differenziazione e specializzazione dei linguaggi.

      Ogni linguaggio rispecchia una propria visione prospettica delle cose. Che di un medesimo oggetto si possa parlare correttamente e in modo appropriato mediante diversi linguaggi concorrenti (ossia si possa osservarlo secondo un punto di vista estetico, o morale, o economico, o naturale, teologico, giuridico, fisio-chimico ecc.), è effetto dell’introduzione di criteri di osservazione di natura prospettica, che sono tipicamente antropocentrici e per niente affatto teocentrici. Per quanto concerne la parola, la rigorosa separazione tra logica e retorica, che viene argomentata nel seicento (vedi soprattutto le dispute di Port-Royal), ma che ha significati antecedenti soprattutto in Pico della Mirandola, è forse l’esempio più significativo per cogliere la portata della differenziazione dei linguaggi sul piano meramente mentale. Ogni linguaggio, ivi compresi quello pittorico o architettonico, grazie al principio prospettico è da considerarsi come un complesso articolato di segni e di combinazioni di segni e di procedimenti, che con propri mezzi descrivono, esprimono, comunicano, ricostruiscono, rielaborano gli oggetti assunti sotto la loro osservazione e sotto le loro forme di trattamento.

      I vantaggi sul piano cognitivo e tecnico-applicativo dell’introduzione di un’osservazione analitica e controllabile, qual è quella strutturalmente prospettica, sono a tutti evidenti. Prendere in considerazione un oggetto qualsivoglia secondo criteri prospettici o di linguaggio specialistico comporta un altissimo grado di oggettività e quindi di universalizzazione. Ma si tratta di un’oggettività metodologica e non ontologica, certificata dalla coerenza e dalla rigorosità dei procedimenti. L’osservazione prospettica, come avviene nella visione pittorica, consente infatti il controllo, la misurabilità, la verificabilità dei procedimenti di osservazione, conseguendo risultati di elevata attendibilità, per non dire di certezza. Certezza? Cartesio sostenne la necessità di seguire soltanto le idee chiare e distinte, al fine di conseguire la certezza degli esiti (altra cosa della certezza è propriamente la verità) e quella che definì res cogitans non è altro che la sede della costruzione del punto di vista prospettico della ragione.

      Ogni linguaggio ha perciò un suo punto prospettico (e punti prospettici interni subordinati), le sue geometrie, i suoi paradigmi, le sue simmetrie e asimmetrie, e le sue regole. Ciò gli consente di conseguire il rigore, la precisione e la coerenza procedurale al proprio interno. Il rigore interno è dato ad ogni linguaggio dal suo metalinguaggio, che è la fonte di garanzia delle regolarità del procedimento. Così, per esempio, i calcoli numerici (linguaggio aritmetico) posso conseguire il loro rigore solo perché obbediscono alla regolare successione infinita dei numeri (metalinguaggio); altrettanto un brano musicale ha un suo linguaggio perché dipende dalla metalinguistica dei rapporti tra suoni; e così è per una spiegazione chimica piuttosto che per una economica. Il metalinguaggio, sappiamo, è la condizione di legittimazione di un linguaggio. E se ci chiedessimo, però, che cosa legittima, a loro volta, i metalinguaggi? Dove e come reperire il metalinguaggio di un metalinguaggio? Il meta-metalinguaggio? Qualsiasi risposta si dia a questo terzo livello, essa si presenta completamente arbitraria. Forse si suggeriranno soluzioni in base a ricerche di scienze neuro-cognitive, che oggi stanno godendo di un particolare prestigio, ma probabilmente nemmeno tali scienze potranno dare completa soddisfazione del senso che si attribuisce alle operazioni cognitive stesse in merito alla Sinngebung più interiore delle singole soggettività, che sollecita ed accompagna quelle operazioni. Le risposte finora possibili sono fortemente dipendenti dalla fantasia, da ipotesi indimostrate, dall’immaginazione più o meno esperta. Oppure, nel merito, si tace.

      Riprendendo la nostra immagine della piramide prospettica, possiamo dire che il vertice si situi sempre in un punto metalinguistico, che consente di osservare linguisticamente, ossia applicando procedimenti misurabili, calcolabili, parametrati, adeguatamente funzionali allo scopo, che legittimano e oggettivizzano i risultati. Tuttavia lo stesso rigore che si applica nell’osservare – eccoci all’argomento focale di questi passaggi introduttivi – non può essere affatto applicato alla scelta del punto di osservazione. È rigoroso il mio osservare prospettico, ma non la scelta del «da dove»; il cambiamento di prospettiva non può obbedire, in ultima analisi, a criteri di scelta obbiettivamente determinabili, ma solo ipoteticamente condizionati. Non c’è motivazione dimostrabile che sia in grado di dirmi se sia in assoluto più legittimo seguire criteri estetici, piuttosto che storici, piuttosto che economici, matematici o morali. Dipende dalle intenzioni, e mutano i risultati a seconda dell’impiego degli uni o degli altri criteri, così come genererebbe confusione mescolare indistintamente i diversi criteri. In pratica non abbiamo regole di omologazione dei metalinguaggi, non possediamo una nomotesi universalizzabile, per la dimostrabilità delle premesse.

      Ogni linguaggio, in conclusione, si serve di propri occhi trascendentali, dotati di propri metodi di osservazione. L’occhio trascendentale, in seguito al processo antropocentristico della secolarizzazione moderna, ha sostituito l’occhio trascendente. La domanda che abbiamo appena posto è: se il il punto prospettico è trascendentale, qual è il trascendentale dei trascendentali? È la domanda che ha accompagnato la discesa faustiana alle Madri. E ha senso chiederselo? È la domanda sottesa alla fi losofia prima, alle oscure viscere delle origini, alla ricerca dei fondamenti, degli Anfänge, degli Ursprünge, di quelli che Husserl ama chiamare i rizomata pantwn [3].

      In filosofia, a questo proposito, si parla di ricerca del fondamento. Ma, in questa navigazione, per usare un’espressione platonica, la ragione non arriva mai in porto, e finisce per naufragare, calando nelle profondità del movimentato mare delle cause, negli abissi delle causae causarum. Vi sono tre modi per non annegarvi. Il primo modo è la decisione volontaristica e dogmatica. È la scelta preferenziale di un fondamento, mediante la quale si tronca la catena infinita delle cause. Il secondo modo è rifugiarsi nella metafisica. Nelle sfere metafisiche la ragione sa muoversi in spazi che vanno al di là di se stessa, oltre i confini di ogni logica, nelle regioni dei più arditi paralogismi. Nell’universo della metafisica la ragione sfida se stessa, trova i campi in cui compie le sue gesta più eroiche. In tali abissi profondi o, se si preferisce, sulle vette più elevate della speculazione dell’intelligenza pura, la ragione si autocelebra, ma si misura inesorabilmente con le idee fondative (Dio, uomo, natura, divenire). Il terzo modo è offerto dalla simbolica, alla quale appartiene anche il mito.

      In breve, secondo questo terzo modo, il livello meta-metalinguistico, che non è mai definibile con i rigori linguistici, chiama in causa valenze dell’immaginario ed è nell’ottica della simbolica che gli si può riconoscere altresì una natura immaginale. Il mito è, infatti, una realtà immaginale, perché si esprime mediante simboli. Il termine «immaginale» ha avuto recentemente molta fortuna in versioni fantasiose e spesso altresì cialtronesche. Il significato di immaginale da noi adottato ha una precisa definizione: esso è l’espressione delle manifestazioni della coscienza liminare, nelle quali sono inscindibili gli aspetti inerenti alla sfera del ponderabile (intelletto, esperienza, percezione sensibile) e contemporaneamente quella dell’imponderabile, derivata dal nostro inconscio, dalle stratificazioni depositate dal costume e dalle appartenenze idioaffettive e culturali, dall’istinto e dall’emotività [4]. Il simbolo, nell’accezione immaginale qui adottata, essendo inteso come espressione del vissuto nell’unitarietà della psiche umana, è a pieno titolo un fenomeno immaginale. In virtù dell’azione inscindibile di conscio ed inconscio, che costituisce la sostanza immaginale, il simbolo è da considerarsi prodotto dalla coscienza liminare, dove l’aggettivo «liminare» sottolinea l’incontro inscindibile tra dimensioni del conscio e dell’inconscio, dell’azione noeticamente consapevole e dell’emozionalità, dei ponderabili e degli imponderabili. È questo il luogo delle manifestazioni della psiche nella sua interezza, della percezione e dell’elaborazione inconscia, che sono proprie delle facoltà dell’essere umano, considerato nella sua unitarietà. È nel vissuto di queste manifestazioni che si deve reperire la sostanza del mito politico.

 

 

3. Seconda approssimazione al concetto di mito politico

 

      Ogni sistema politico, qualunque siano le ideologie praticate, si regge su due imprescindibili presupposti: le convinzioni (più enfaticamente, una fede) e la forza. Con le convinzioni coincidono le ideologie in quanto tali, nelle convinzioni rientrano gli apporti delle culture e i sistemi di interessi socialmente in gioco. Ed è nella convinzione che vive anche il mito politico; è nella forza la condizione per attuare il suo imporsi. Evidentemente, più forte è il mito vissuto, più questo acquisirà forza per imporsi, così come la forza stessa può essere contenuta nel mito; se si tratta del mito della forza, un sistema si reggerà su di essa solo se la possiederà anche di fatto.

      Anzi, più precisamente, è in particolare il mito a determinare le convinzioni nelle idee collettive, le quali vivono sempre di valenze mitiche. La sola forza, che può servirsi di qualsiasi mezzo anche indiretto, senza il supporto delle convinzioni che la motivano e la sorreggono, è di breve durata, non costruisce nulla e sostanzialmente sarebbe solo distruttiva; le sole convinzioni, senza la forza che le sostengono, sono assolutamente inefficaci. La convinzione, alla sua base sempre d’ordine mitico, può presentarsi come idealità, come sentimento di appartenenza, rappresentazione di bene comune, come credenza religiosa o fede, tollerante oppure fanatica, ma comunque non muta lo statuto strutturale dell’ideologia mitizzante. Anche parlare di obbligazione politica, di contratti sociali, di patti o accordi di convenienza, di scelte razionali, che darebbero vita ad aggregazioni politiche, alle statualità, alla società civile o, più in generale, a una socialità organizzata e alle comunità, significa, in ultima analisi, fare leva su convinzioni. Ugualmente si deve altresì dire di ogni genere di convenzione: essa deve risolversi in convinzione, perché senza la convinzione di stipularla e soprattutto di rispettarla, sarebbe priva di qualsiasi efficacia. Anche le istituzioni e le consuetudini tramandate si consolidano in misura della convinzione comune che le alimenta e le sorregge. Che cosa è aggregante in tale genere di convinzioni, se non la mitizzazione di alcunché? Mitizzazione che può essere tanto drastica e fanatica, quanto anche blanda e accomodante; nell’un caso sarà dogmaticamente chiusa in se stessa e con identità di gruppo forte, nell’altro produrrà aggregazioni identitarie alquanto deboli, rendendo fragile e labile la compagine di appartenenza.

      Una compagine sociale dovrà perciò riconoscersi in un proprio mito, dal quale trae origine la sua identità.

      Una volta stabilito che ogni realtà politica trova il suo fondamento sui due pilastri della forza e del proprio mito aggregante, è facilitata la considerazione del mito politico in quanto tale. Prima di tutto si devono dare per acquisite due proprietà del mito, o meglio due lati della medesima proprietà. Il mito, sotto le sue modalità immaginifiche, è sempre dotato di un suo sistema di conoscenze, in virtù delle quali le sue manifestazioni esprimono realtà di per se stesse veritiere e che altrimenti non si saprebbero ugualmente esprimere; inoltre il mito non è mai arbitrario – è il secondo lato – sicché è sempre rivelatore di situazioni profondamente radicate nel nostro mondo vitale. Questi caratteri dovrebbero chiarirsi meglio con quanto qui di seguito diremo.

      Ho spesso ripetuto in merito alla cosiddetta civiltà occidentale, alla quale incominciamo a dubitare di appartenere ancora: dai Greci abbiamo imparato a pensare, dai Romani a governare, dai Germani ad agire, dal mondo ebraico, aggiungo, a cogliere il senso del provvisorio e della precarietà delle nostre idee. Molti errori si commettono, perché ci scordiamo di questi antecedenti o perché, anche senza volerlo, scambiamo troppo le parti tra loro.

      Sotto il profilo politico ci basta qui differenziare l’apporto dell’intelligenza greca, carica anche di passionalità e di idealità, dall’apporto romano, fondato piuttosto sull’autorità delle istituzioni e del diritto col conseguente spirito di autodisciplina. Questa generalizzazione, ovviamente, non vuole essere descrittiva, ma soltanto di indirizzo caratterizzante. La polis greca affida i suoi costumi ad un nomos, che sottrae il cittadino alla balìa tanto della hyle della natura quanto del kratos degli dèi, giacché la politeia non si realizza tra individui che si sentano posseduti dalla divinità o guidati dal puro istinto animalesco. Tale è il senso, per esempio, della famosa definizione di Aristotele dell’uomo quale animale «politico». Quanto a Roma, essa ha introdotto un’idea di universalità istituzionale che i Greci non possedevano affatto, grazie innanzitutto alla sensibilità giuridica della quale i romani hanno rivestito il loro mos e dell’esaltazione di Roma, l’urbe per eccellenza, in quanto mito universalistico. Roma costruì il mito di se stessa e si costruì fin dalla sua origine come mito. Roma come mito politico si perpetuerà nel tempo anche dopo la sua caduta dalla res publica christiana e dall’impero medievale al Rinascimento (e l’esempio più classico è Machiavelli), al mondo vicino alle idee illuministiche, al nazionalismo novecentesco, e ancor oggi continuiamo a studiarne lo ius. Roma, grazie alle sue istituzioni e al diritto, introdusse nella classicità una visione universalistica, quindi aperta ed estendentesi verso gli altri, che la concezione politica greca non seppe o non volle sviluppare, priva, come fu, di istituzioni universalizzanti e, soprattutto, di un’idea autonoma del diritto. Questa breve osservazione sull’antichità, che maggiormente è richiamata nei nostri studi scolastici, ci serve qui soltanto come esempio eloquente, per dare più efficace risalto all’immagine di una comunità politica universalistica che ha posto la propria grandezza sulle basi di un mito della potenza della propria città.

      Dobbiamo, prima di tutto, sgombrare il campo da un facile equivoco, che proprio emerge sul terreno delle idealità politiche: è la confusione, abbastanza correntemente praticata, tra mito e utopia. Qui non faccio menzione né delle varie accezioni del termine e del concetto che accompagnano mito ed utopia, affidate ad una letteratura ormai sterminata, e nemmeno mi attardo a discutere sulle controverse origini [5]. La molteplicità dei punti prospettici, di cui si serve la modernità, consapevole del suo costruirsi in forme linguistiche, impoverisce l’energia del mito, ne condiziona e ridimensiona la forza di attrazione. Proprio lungo l’età moderna si è accreditata una nozione di mito, termine che, alla lettera, ha per significato principale quello di racconto d’immaginazione, che il nostro intelletto cognitivo carica di sfumature spregiative e la fantasia di connotati idealizzanti. In pratica, la tendenza della modernità è di convertire il mito in utopia, perciò è necessario chiarire le differenze. Diciamo subito che non si tratta di un problema di contenuti, che possono indistintamente appartenere all’uno o all’altra.

      Condivisibile è la tesi già elaborata da Walter Otto e da Karl Kerény e ribadita da Mircea Eliade, per la quale il mito costituisce sempre un precedente rispetto ai modi di vivere la realtà [6]. Altrettanto non si può certo dire dell’utopia. In generale possiamo affermare che il mito, innanzitutto, non può essere pensato, programmato, architettato e non lo si può concepire come un racconto meramente descrittivo. Il mito è vissuto. È quindi sempre radicato nella realtà, è realtà, realtà vissuta. Di contro l’utopia non è concepibile se non come una costruzione intellettuale, un’ideazione cosciente ed elaborata dalla mente e dalle sue capacità di progettazione. Mente il mito in quanto tale non è mai un prodotto d’autore – si può dire correttamente che non ha autori e che, per così dire, si dà da sé – l’utopia non può non averne, perché è una modellazione razionale dell’immaginazione, del desiderio o di calcoli ottimizzanti.

      Se il mito non si può costruire a tavolino, però si celebra e si tramanda. Il mito ripete e trasmette i suoi contenuti, facendo da guida alla comunità che lo vive, perimetrandone le azioni e le loro estensioni, facendo da guida e insieme da contesto rassicurante. Il mito salvaguarda dalla morte, nel senso che mantiene in vita l’identità e la continuità di coloro che ne sono coinvolti, e fintanto che è celebrato e condiviso mantiene l’autoriconoscimento della collettività. In particolare il mito sopravvive tramite la ritualità, coi suoi ritmi (il ritmo è la forma temporale del rito), con le sue ricorrenze, col raccontarsi costantemente mediante i comportamenti e gli orientamenti sentimentali che induce nell’intimo della comunità che esso aggrega, e anche con le memorie e, se si vuole, le retoriche, provviste a volte anche di monumentali materialità. Tipicamente identitario, il mito è concretamente aggregante. Non altrettanto accade nell’utopia, che si sostanzia di proiezioni idealizzanti e non si costruisce realisticamente nel vissuto collettivo. Per di più, l’utopia segna comunque una rottura con la realtà del presente, nei confronti del quale coltiva sempre venature alquanto pessimistiche ed in qualche misura esercita un’opposizione, mentre il mito è necessariamente radicato nel presente, anche se vi immette elementi di metatemporalità, si somatizza nelle sue ritualità. Meglio ancora, possiamo sostenere che la compattezza di una collettività si spiega col fatto che le collettività stesse si iconizzano e diventano una sorta di somatizzazione socio-iconizzata dei propri miti. Diciamo che il mito si celebra e si ritualizza nello spazio e nel tempo; l’utopia, invece, si cristallizza al di fuori dello spazio e del tempo. È decisivo comprendere che, sotto il profilo comportamentale, l’utopia si genera solo in quanto integralmente guidata dal soggetto, perché è il soggetto che guida l’utopia; al contrario accade nel mito, perché è il mito che guida il soggetto, essendone questo pervaso interiormente, e non soltanto nella mente.

 

4. Caratterstiche specifi che del mito politico

 

      Modernità è prospettiva e molteplicità di punti prospettici, come sopra dicevamo. Perciò il mito politico moderno non può non risentire di suoi costrutti linguisticamente concepiti. Lasciando sullo sfondo questo problema, raccogliamo invece le condizioni che abbiamo tracciato per ragionare del mito politico nelle specificità che ne emergono a partire dall’età moderna e secondo la metodologia simbolica, e non semiotica, che abbiamo adottato. Un esempio illustre di lettura semiotica del mito è quello elaborato da Roland Barthes, che in merito voglio citare, trattandosi di studioso di tutto rispetto ed essendo assolutamente rappresentativo di un indirizzo interpretativo del mito, che è alquanto fuorviante rispetto alla impostazione prettamente simbolica, che qui stiamo praticando. Barthes definisce il mito come mot, cioè «parola» nel significato estensivo conferitole dai cultori della struttural-linguistica, adottando peraltro un’accezione correttamente desumibile dall’antico corrispettivo termine greco. Al valore di «parola» egli accosta l’idea del qualcosa che «sta al posto di», che «sta per», che «vale per», con funzione, in ultima analisi, indicativa oppure sintomale. In tal modo si opera una disgiunzione tra significante e significato, che non è affatto confacente alla specifica natura simbolica del mito [7]. Il mito, letto in chiave simbolica, non sta per nulla al posto di altro, non si costruisce come significato di altro da sé, ma semplicemente «è», ed è quello che è. Ciò vale non solo per il mito in generale, ma anche specificamente per il mito politico.

      Prendiamo ora in considerazione il mito politico nella portata che esso può assumere nella modernità, caratterizzata da concezioni secolarizzate, e soprattutto desacralizzate, senza fare riferimento a società d’ordine sacrale, nelle quali è caratterizzante la natura rivelativa dei miti praticati (ricordo soltanto che le società sacrali, come ad esempio l’antico-egizia, vivono infatti secondo concezioni mtico-rituali-rivelative). Il mito è sempre un fenomeno culturale e «rivelazione», quindi, non sta qui ad indicare manifestazioni che realmente discendano da divinità o siano folgoranti e improvvise apparizioni di mondi superiori, ma allude semplicemente ad una fonte psichicamente espressa da chi vive quel mito, nella convinzione cultuale e rituale della sua indipendenza dalla volontà e dalle credenze umane.

      Accostando il mito politico, dobbiamo porre una prima distinzione generale, che trova giustificazione in un’ottica esclusivamente antropologica. Si tratta di due aspetti del mito, che possono anche coesistere nel medesimo mito, perché in realtà dipendono dal modo di dare spiegazione del mito e del campo di interessi che si vuole evidenziare. La distinzione è tra miti archetipali e miti ideologici.

      I miti archetipali, evocano istinti del profondo, che riposano sotto le coltri culturali e le convenzioni sociali. L’aggettivo archetipale ci rinvia indubbiamente a ricerche di Gustav Jung. Possiamo immaginare a latenze pulsionali che appartengono alla specie umana in quanto tale, ma le cui forme di manifestazione variano, in quanto espresse dalle culture e dai momenti epocali che attraversano. Dobbiamo in proposito pensare ad impulsi esistenziali, che interpretano bisogni costanti, a volte sopiti, ma che soprattutto in momenti eccezionali premono sulla psiche individuale e collettiva, per dare risposta ad esigenze insoddisfatte, o ad oppressioni, oppure allo sfaldarsi di vincoli sociali, oppure ancora per contrapporsi a minacce o ad aggressioni in atto. Tali figure archetipali si impersonano in personaggi reali e in situazioni contingenti e rappresentano, ad esempio, il vendicatore, il salvatore, il conciliatore, la sfida, il liberatore, la madre e così via. In tali figure leggiamo l’evocazione di un deposito atavico, che costituisce un patrimonio psico-pulsionale dell’umanità in quanto tale e che dimora nell’inconscio collettivo. L’emergenza di un mito archetipale normalmente ha portata fortemente coinvolgente, quando non addirittura scatenante, essendo la manifestazione del substrato iletico della natura umana. Il mito archetipale è per sua natura restìo ad ogni compromesso. Quando la consistenza degli aggregati politici viene travolta dagli eventi e solo quando gli equilibri di un sistema vengono sconvolti, in altri termini quando forze distruttive sprigionano concretamente fondate o immaginarie paure, allora insorgono incontenibili le energie rivolte sia alla disgregazione sia alla salvezza o al riscatto, sia alla vendetta o alle esigenze di rigenerazione. Questo è il risveglio degli archetipi dormienti, che invadono ed esaltano le coscienze con spinte mitiche, che assumeranno le vesti simboliche di rappresentazioni, di ipostatizzazioni e di figure dotate di incontenibile potenza. È un ritorno della forza dell’epos. Compaiono, così, figure di salvatori, di fondatori, di rivoluzionari, di vendicatori. Individui, istituzioni, etiche, progetti assumono, per tale via, ruoli improntati al pathos archetipale. La loro azione è fascinosa, egemonica, alterante ed asservente. Spesso negli atteggiamenti fanatici, assolutamente restii a qualsiasi compromesso, albergano mitizzazioni che si possono classificare di tipo archetipale.

      Per miti ideologici, definibili anche come direttamente e consciamente culturali, dobbiamo intendere quei miti, nei quali non è riconoscibile un immaginario dipendente da fi gure archetipali o, quando lo fosse, tali figure occuperebbero un posizione subordinata all’elaborazione di istanze vissute come guida e a direttive di una psiche programmatrice e idealizzante. Questa seconda specie comprende miti, nei quali non è difficile scorgere una dose di realismo utilitaristico o di utopismo, e vi si rintraccia senza molta difficoltà una componente fronetica, particolarmente confacente all’esercizio di comportamenti fautori di socialità e agevolatori della convivenza. Interpreti per lo più di visioni progettuali e di prospettazioni politiche e sociali, come avviene per esempio nella normale pratica di movimenti politici o anche di carattere soltanto morale, i miti ideologici sono particolarmente dotati di loro concezioni etiche. È evidente che in questa seconda specie di miti il ruolo della razionalità, o semplicemente della ragionevolezza, gode di maggior spazio che non nei miti puramente archetipali. I caratteri del mito ideologico saranno integrati da quanto diremo qui di seguito.

      La distinzione tra miti archetipali e miti ideologici non richiede più di tanto la nostra attenzione. Considero invece di grande rilevanza, per la comprensione del mito politico, la tripartizione che ora cercherò di mettere in luce. Essa dipende, più che dai contenuti effettivi del mito, dall’intensità del suo vissuto collettivo. Chiamo i tre tipi di mito politico in questione rispettivamente: mito politico primario, secondario e terziario.

      Mito politico primario. Possiamo innanzitutto fare riferimento alla stirpe e alla terra. Il legame ancestrale con le proprie ascendenze è uno dei connotati essenziali che hanno costituito il sentimento di appartenenza di un gruppo. Vi ravvisiamo quell’idea di appartenenza ad una natio, intesa in maniera più o meno estensiva, che nella storia troverà anche forme di istituzionalizzazione e che contribuirà altresì alla fondazione degli stati moderni. L’attaccamento alla propria stirpe ha una rilevanza decisiva soprattutto nelle aggregazioni di origine nomadica e nelle organizzazioni di genere gentilizio. Ma più importanza è venuto acquisendo nel tempo il sentimento che lega un popolo alla propria terra, alle consuetudini delle sue genti, all’indole costumale che viene tramandata, facendo della stirpe o di più stirpi una vera e propria nazione.

      L’amore per la propria terra è dotato di forza esemplare. Il legame con la terra sotto il profilo simbolico, ha numerose valenze proiettive dell’identità di una compagine sociale. La terra dà sostanza fisica, materialità e concretezza all’appartenenza, è il visibile e tangibile spazio della consistenza collettiva. Al valore simbolico della terra si connette il nutrimento del potenziale idio-affettivo di una comunità, che ne alimenta la coesione.

      La propria terra è consacrata dal lavoro, dalle sofferenze, dalle conquiste di più generazioni, dal sangue versatovi, e ne conserva testimonianze naturali e costruite. Ricordiamo quanto ebbe a dire un vecchio capo pellerossa in seguito alla confisca dei territori che appartenevano alla sua tribù: quando un popolo perde la sua terra per quel popolo finisce la vita e incomincia la sopravvivenza [8].

      La propria terra (sia essa città, regione o territorio qualsivoglia di abituale abitazione) è luogo del rinnovamento delle energie identitarie e stabilizzanti, essendo spazio delle continuità e di collocazione materiale e ideale insieme delle tensioni e dei progetti che animano l’esistenza della collettività e nella collettività. È quindi, prima di ogni altro, luogo mentale e sentimentale. Nel provare un profondo legame per la propria terra si intessono sottili ma resistenti trame, che formano la forza coesiva e invisibile di affinità e solidarietà, con cui si vivono e si costruiscono le sorti comuni. L’effetto fondamentale che dobbiamo cogliere nell’amore per la propria terra sta nel ritrovarvi la consistenza praticabile e consapevolmente circoscrivibile, nella quale si situa in maniera radicale il binomio cielo-terra. L’immagine della terra, consacrata come dicevamo dal lavoro e dal sangue di generazioni, sotto quel medesimo cielo, è per un popolo la presenza viva e concreta delle sue ascendenze e dello spazio, in cui si colloca quell’axis mundi che si converte nell’axis sui; sono gli axes di quel popolo.

      La propria terra è fatta anche di racconti; narra ed attesta una storia. Le generazioni che l’hanno vissuta, costruita, trasformata, difesa, tramandata prolungano la loro presenza nel ricordo e nel costume. Nel sentimento di attaccamento si percepiscono anche il respiro delle generazioni passate e le segrete promesse che investono quelle future. Dell’appartenenza alla propria terra fa parte anche la sua storia, con le sue memorie, le sue glorie, le sue sofferenze, i suoi monumenti, le sue rovine, i suoi artisti e creatori, la sua lingua. Le consuetudini, che si apprendono dall’infanzia e che si coltivano da adulti, ritmano l’esistenza collettiva delle comunità che vivono l’amore per la propria terra, trasmettendone il senso alle nuove generazioni. È il modo di pensare e di agire che connota e tipicizza gli ambienti, imprimendo loro un proprio stile di vita. Vi si accompagnano cerimonie, ricorrenze, ritualità, tanto di tipo pubblico quanto domestiche, e spesso anche il modo di gestire, di vestire e di giudicare, l’uso di canti e di danze rientrano negli aspetti delle continuità locali.

      Nella fusione tra terra, con la sua natura e con le opere che la integrano, e costume tradizionale, si delinea la struttura liminare, riflessa nel modo di essere di chi sente di far parte di quel tutto. Abbiamo parlato di ricordo, ma il contesto dell’amore per la propria terra comporta di più, perché in esso si congiungono inscindibilmente passato, presente e futuro. La propria terra con le memorie che tramanda, è custode del ricordo collettivo, ma insieme accoglie nel presente e indirizza nel futuro, introiettata negli animi secondo le sue forme e il suo modularsi; in tal modo accomuna – nel passato, nel presente e nel futuro – in una articolata e dinamica unione delle sorti.

      Il valore della terra di appartenenza non è dunque soltanto spaziale, ma anche temporale. È un valore cronotopico, cioè dotato di una compattezza, nella quale spazio e tempo sono inscindibili, perché assimilati dal nostro animo come acquisizioni della totalità della nostra psiche. Questo carattere chiama in causa anche la componente della continuità della stirpe, sia essa etnìa, nazionalità. Il riferimento è al sangue comune. Ma il più consistente rafforzativo di questo lato del mito è aver versato del sangue, aver attraversato le vicissitudini di una guerra, che ha fatto sentire un popolo più unito. È uno degli alimenti più corroboranti del mito. Aggiungiamo che non è strutturale a questo genere di mito, che abbiamo definito primario, la presenza di un nemico; strutturale è per esso, invece, che ci sia il diverso, a seconda dei casi amico, nemico, estraneo. Altro elemento fortemente connotante può essere la comune fede religiosa politicizzata, soprattutto se fanatizzata. La forza del mito può rendere disponibili perfino a perdere la vita per non tradirlo e per difenderlo. Il mito della patria o il mito della fede religiosa sono stati, in proposito, il più costante esempio del genere nella storia.

      Nel mito politico primario stirpe, terra, costume finiscono per fare un tutt’uno (Blut und Boden, avrebbe detto qualcuno rafforzando la connotazione). La legittimazione di un potere politico si fonda nelle sue linee essenziali, secondo il mito primario, sul legame identitario con un complesso di costumanze e di continuità di stirpe territorialmente stanziata. Consilimi considerazioni possono essere riferite anche ad aggregazioni di gruppi prive di un preciso stanziamento territoriale, a condizione che il sentimento di appartenenza al gruppo sia fortemente identitario e indipendente da esclusive scelte personali o da maturazioni interiori in coloro che sentono di farne parte. È il tipico caso di appartenenze tribali, quali si riscontrano in popolazioni nomadiche, o di appartenenze ataviche ad un sistema di credenze religiose o anche di legami emotivamente insuperabili con una propria etnia. Anche prescindendo dall’insediamento in uno specifico territorio, tali forme di appartenenza collettiva possono a pieno titolo essere ritenute fondate su miti primari. A grandi linee possiamo definire il mito primario come la sede delle convinzioni politiche psico-emotive.

      Mito politico secondario. Possiamo definire questo secondo tipo di mito come caratteristico dell’appartenenza ad un’ideologia. Anche se quelli che abbiamo denominati miti ideologici rientrano per lo più in questa categoria, non vi è perfetta coincidenza con essi, data la diversità del criterio distintivo. Un mito ideologico, peraltro, potrebbe fare propri degli elementi compositivi di un mito primario. Definendolo caratterizzato da dimensioni ideologiche, si vuole mettere in evidenza che il mito politico secondario nasce generalmente da una costruzione programmatica, da una progettualità, che ha ad oggetto una determinata interpretazione del bene comune, o anche particolare di un gruppo, e del giusto da perseguire per una collettività e che la traduce in azione. Il mito secondario può dunque prescindere completamente dai riferimenti caratteristici del mito primario, ossia dai legami con la terra, con le tradizioni e con le appartenenze cultural-costumali, con fedi religiose. Mentre il mito primario non si fonda sull’intenzionalità di chi lo vive, perché la trascende, nel mito secondario l’intenzionalità è una componente possibile. Le proprietà identitarie delle posizioni che connotano il mito secondario sono riposte in costruzioni ideali o in interpretazioni più o meno argomentate dei bisogni e delle aspettative della collettività, sì che il sentimento di appartenenza viene orientato ad obbiettivi, verso i quali l’azione politica mira a convogliare i consensi.

      Gli esempi più diretti si possono attingere alle varie ideologie che hanno incominciato ad attraversare il continente europeo, specialmente a partire dal XVIII secolo. In particolare, le idee illuministiche hanno propugnato la convinzione che alla guida dei popoli dovesse essere posta la ragione. E ciò è un mito secondario, a partire dal quale ha preso avvio tra i popoli il propagarsi delle vedute più varie, giacché alla ragione politica sono stati affidati i compiti politici più contrastanti e spesso altresì confliggenti. Non occorre un ingegno tanto smaliziato ed esperto delle arti di governo per sapere che, a partire dalla politica guidata dalla ragione si finisce per arrivare alla ragione guidata dalla politica. Così accade con le grandi e piccole ideologie, che per un lungo periodo hanno campeggiato nelle compagini europee, probabilmente anche logorandone le risorse morali.

      È essenziale alla visione che si stabilisce su questo genere di mito – certo dalle radici piuttosto artificiose – la presenza di uno o più avversari, specialmente interni (o anche veri e propri nemici), rappresentati da coloro che non condividono quella determinata ideologia o che ne condividono altre, conviventi in concorrenza o apertamente incompatibili e confliggenti. A differenza dagli altri due modelli tipologici, del resto, quello secondario è l’unico idoneo a favorire opere di proselitismo. Praticamente, sotto il vissuto di un mito secondario, la legittimazione del potere politico di un sistema si fonda essenzialmente sulle idealità di una scelta ideologica.

      Sono miti politici secondari, per fare esempi macroscopici, quelli praticati dai vari comunismi, populismi, dai liberalismi, dai socialismi, dai conservatorismi, dai rivoluzionari di qualsiasi compagine o orientamento, che ritengono di interpretare e propugnare il bene comune o di essere investiti da una missione storica, più o meno ragionata e resa strategica.

      Ma tra i miti secondari sono da annoverare anche quelli che si costruiscono come neutralizzatori del sentimento politico di appartenenza, intendendo per neutralizzazione il concepire gli apparati di aggregazione politica esclusivamente in funzione strumentale. Si possono trarre esempi, innanzitutto, da quelle posizioni spintamente liberali, che ripongono i valori collettivi nella libera esplicazione delle istanze degli individui e dei loro associazionismi, concependo nel contempo le istituzioni politico-amministrative come semplici strutture razionalmente o giuridicamente costruite, per assicurare la tutela del pacifico sviluppo dei rapporti sociali. È evidente, anche in questo caso, l’esclusiva ideologicità della scelta strategica. Non dissimile, però, è l’atteggiamento riscontrabile in quelle posizioni fi deistiche, frequenti soprattutto in periodi di accentuato dogmatismo religioso, che ripongono i valori aggreganti esclusivamente nelle istituzioni che rappresentano il proprio credo, subordinando a queste ultime gli apparati amministrativi di carattere statuale. L’esempio storico più significativo, in contesti europei, risale ai cosiddetti stati confessionali. In realtà, nei due esempi ora riportati, le esigenze della politicità e i relativi tratti mitici non sono propriamente cancellati, ma solo trasferiti in sedi che la mentalità politica statocentrica non ritiene, in tutto o in grande misura, confacenti alle esigenze delle comunità, giacché vede nello stato stesso il luogo delle proprie ideologie. Il mito politico secondario è, in sostanza la sede psico-razionale delle idealità.

      Mito politico terziario. Il mito politico terziario attenua e relativizza il mito politico in quanto tale e addirittura lo dissolve. A grandi linee si può far coincidere questa terza tipologia di mito politico con l’abbandono sia del legame con la terra, con le stirpi, con i costumi tradizionali e con le ritualità collettive, sia del legame con gli ideali, intorno ai quali si mobilitano i consensi, e quindi anche con le ideologie in generale. È una condizione, quella terziaria, nella quale il mito vive di una simbolica molto impoverita e si potrebbe dire occasionale, dettata dalla sopravvivenza, dalla semplice ricerca di benessere e di vantaggi materiali o dalle suggestioni del momento. Con più esattezza, dovremmo dire che del mito rimangono soltanto parvenze caricaturali, frammentate, sbriciolate e artefatte. Il sentimento di appartenenza si estingue, saltano i confini tra popoli, costumi ed ideologie. La commistione tra culture impera, distruggendo ogni cultura e dando vita nel contempo a nuove realtà sincretiche, che paiono controllate soltanto dalle dinamiche dello sfruttamento economico della natura e degli uomini, dalle innovazioni tecnologiche, dalle procedure omologanti e da tutti quegli apparati che affastellano ogni rappresentazione delle cose che possa essere consegnabile alla comunicazione di massa e alle sue pseudo-nozioni.

      A stretto rigore il mito politico terziario, dunque, non è un mito a tutto tondo, bensì è generico e si presenta sporadicamente, a brandelli, più sotto la forma di attrazioni occasionali e circostanziali che non di vissuto interiormente orientato. Esso fluisce in un mondo contaminato: contaminate, del resto, sono tutte le culture, quanto lo sono l’ambiente ed ogni produzione. Ma in questo genere di mito la contaminazione e le misture sono di regola. Non si danno purezze di sorta, vi mancano sicurezze, né si riscontrano solide appartenenze. Il mito terziario agisce, per così dire, solo sulla superficie delle coscienze. È anche per questo motivo che ordinariamente, sotto le suggestioni di mitizzazioni improvvisate, non compare mai la figura di un effettivo nemico o comunque di un avversario: la debolezza e fragilità delle identità e lo stato effimero che queste inducono sugli individui, creano una generale condizione di provvisorietà e di precarietà, spesso di vera e propria instabilità fisiologica, che rendono malcerto l’intero sistema di relazioni.

      Un buon inquadramento della natura del mito terziario può essere suggerito dalle osservazioni avanzate nel primo paragrafo intorno ai tre fenomeni epocali congiunti dell’autoriproduzione cieca delle tecnologie, del burocratismo procedurale e dell’individualismo di massa. Sotto la loro pressione incombente i simboli sono ridotti a segni, più precisamente a significanti dissociati da un loro significato ed abbandonati al puro insignificante del suggestionismo. Né uomini, né cose, né ambienti valgono più in quanto tali o in loro precise Sinngebungen, ma solo come situazioni e strumenti di riproduzione delle dinamiche in atto. Né territorio, né consuetudini, né religione, né idealità-guida hanno più valenza; se di tanto in tanto se ne mostrano ancora delle parvenze è perché essi sono ridotti a funzioni strumentali, per interessi completamente estranei a quei fenomeni. Anche la conoscenza delle cose viene privata di ogni reale epos, di ogni ethos, e, al limite, perfino di ogni pathos, dal momento che viene ridotta e canalizzata a mere funzionalità materiali e circostanziali. Gli eventi sono smontati in dati statistici e in protocolli di risulta, che tengono luogo dell’intelligenza dei fenomeni e che sono privi di ogni coinvolgimento idio-affettivo. Sotto l’impero di sincretismi, egualitarismi livellatori, globalizzazione dei problemi, efficientismo materialistico e artificialità dei contenuti, dei contesti e delle relazioni, sotto l’egemonia di pianificazioni più o meno virtuali e sotto il governo dell’effimero e dell’occasionale, il mito politico si dilegua nei controlli e nelle procedure degli apparati, che gli consentono di autoriprodursi e di impedire il formarsi tanto di miti primari quanto di miti secondari. I miti terziari, effimeri ed eterodiretti, si reggono sostanzialmente sull’imitazione, come strumento soggettivato per superare la solitudine sociale e l’indifferenza apprensiva nonché il sentirsi esclusi dalle dinamiche in atto. Il mito terziario si fa sede dell’universalità insignificante.

      Le tre tipologie, a grandi linee, sono assimilabili a caratteristiche rispettivamente epiche, etiche e patetiche. Ma più evidenti sono altre particolarità. Il mito primario si fonda sulla differenza. Esso, oltre a rappresentare con più intensità degli altri la natura del mito, pone anche le premesse di una possibile realtà di fatto di tipo radicalmente pluralistico, per via del suo esclusivismo interno, che può anche rinchiudersi in sovranità autoreferenziali. Il mito secondario, a sua volta, può altrettanto rinchiudersi in visioni autosufficienti, ma essendo caratterizzato da idealità, e non da fattori indisponibili alle scelte, si presenta più esposto alle permeabilità ideologiche e agli effetti propagandistici. Il mito terziario è soggetto, invece, alla indeterminatezza e alle suggestioni dell’effimero, sì che vive di continue comparse e scomparse di richiami frammentati ed è portato a ignorare specifiche peculiarità stabili, sostanziandosi di articolata ed indifferente espansione. Possiamo, dunque, riconoscere nei tre tipi di mito politico il rispettivo predominio della particolarità, dell’idealità e dell’universalità indifferenziata; tuttavia, trattandosi di una tipologia modellare, è ovvio che nella effettività della vita associata si incontrino di fatto forme frammiste.

 

 

5. Considerazioni complessive

 

      Attualità del mito politico? La risposta si evince da quanto finora esposto. Sì, se si pensa alla sua necessità per la realizzazione di una compagine politica autocosciente e coesa; no, oppure molto poco, se si pensa alla descrizione della realtà odierna, soprattutto quella europea. All’assenza di un mito di fondazione o di appartenenza sufficientemente convissuto – mi riferisco in particolare alle condizioni euro-occidentali – si accompagnano sporadici accavallarsi di mitismi terziari snaturanti. E un mito, ripetiamo, non può essere inventato o programmato, non può essere frutto di proclamazione delle decisioni prese da qualsivoglia organo pubblico.

      Tali carenze non sono prive di pericoli. Il bisogno di senso, che è sempre latente nell’esistenza umana e soprattutto in rapporto con la vita collettiva, può incanalarsi anche verso sbocchi indesiderati. Le soluzioni sono due: una società, con la sua civiltà e col suo patrimonio culturale, che sia in preda a miti terziari, prima di tutto finisce per vivere miti altrui, esteriori ed alteranti, e in secondo luogo corre il rischio di estinguersi o di impennarsi sotto l’azione di improvvisi miti primari, nei quali le forze irrazionali sono in grado di cancellare forme di convivenza sufficientemente ragionevoli.

      Certe tipologie di governi totalitari sono l’espressione del vuoto creatosi al venir meno di miti collettivi tradizionali. Tali regimi, il più delle volte, sanno bene interpretare sensibilità, che percorrono l’animo popolare o che in esso appaiono sopite, e se prendiamo ad esempio quello che nella nostra storia ancora recente è sicuramente il più significativo – alludo precisamente al nazionalsocialismo tedesco – possiamo renderci conto di come un mito politico intervenga nella mobilitazione di una popolazione in se stessa anche molto articolata e, come nel caso tedesco, tutt’altro che culturalmente arretrata. L’esempio del nazismo ci insegna molte cose. La quantità di studi storici che si sono susseguiti sulle sue vicende non ha forse ancora preso in debita considerazione – tranne in parte talune indagini su particolari pratiche cultuali collegate con suggestioni esoterico-iniziatiche – una lettura simbolica, proprio connessa con la natura del mito politico.

      Due sono i punti-chiave da sottoporre all’attenzione, secondo parametri tipici della simbolica politica. Il primo, meno connesso col nostro tema, concerne il principio vitale androginico, il secondo direttamente le caratteristiche del mito politico.

      Sul primo punto ci basti dire che il contesto politico tedesco, interpretato istituzionalmente dalla cosiddetta Costituzione di Weimar, presentava caratteristiche istituzionali simbolicamente troppo ispirate al «principio femminile» rispetto al contesto sociale che disciplinavano, con la conseguenza che la risposta portò ad uno sbilanciamento dell’intero sistema, spostandone il baricentro su un eccesso opposto, ossia sul principio maschile [9]. La repubblica di Weimar, oltre alla povertà di miti aggregativi (anzi, i costituenti furono propensi ad avversare quelli tradizionali, perché evocativi di echi monarchici), viveva su un sistema istituzionale giuridicamente astratto e sbilanciato nelle sue strutture archetipali o primarie (cioè nei due princpî vitali). Detto altrimenti, ha presunto di potersi instaurare in assenza di un vero e proprio mito fondativo e di appartenenza. Ma a noi interessa di più il secondo punto.

      Richiamiamo tre concetti: mito, rito, rivelazione. Quando la fenomenologia che riguarda questi tre concetti li manifesta in maniera unitaria e contestuale ci troviamo di fronte ad una realtà sacrale. Un vissuto collettivo sacralmente costituito, nel senso stretto del termine, è mitico-rituale e insieme rivelativo. Occorre la compresenza delle tre componenti. Se ci accostiamo a quanto costituisce il nucleo più centrale del nazismo – parlando sempre in chiave simbolica – non v’è dubbio che vi scopriamo caratteristiche mitico-rituali decisamente spiccate. Lo dimostrano i discorsi pubblici del dittatore, nei quali contava di più ascoltare il risuonare delle parole, animatrici di folle, che vibravano sopra le squadre schierate, piuttosto che aver materia su cui riflettere circa i loro contenuti, e importava di più essere partecipi delle cerimonie evocative e provare l’orgoglio di marciare sotto una stessa bandiera che non imbastire interpretazioni della realtà sociale. Troppo spesso si liquida il senso di quelle manifestazioni col definirle «retorica». Del resto deve essere chiaro che un mito di per sé non è affatto retorico, anche se la politica talvolta può renderlo tale. Non precisamente di retorica si tratta, ma di ritualità, non soltanto di scenografi a (peraltro innegabile), ma di vera e propria liturgia laica. È errato, in sostanza, pensare che i cerimoniali di quel regime si risolvessero soltanto in suggestioni propagandistiche – che senza dubbio abbondavano in quelle accurate regìe pubbliche – giacché nella coscienza liminare collettiva si concentrava una potenza mitopoietica di profonda intensità rituale.

      Quando una collettività vive un mito e lo ritualizza o mitizza i suoi riti, essa sviluppa una potenza di energie patiche, che possono assumere le più svariate direzioni; tutto dipenderà dai caratteri del mito vissuto. E mito-rito è il binomio che costituisce la struttura elementare della simbolica collettiva del nazionalsocialismo. Ma ecco il nodo: assente era in quel contesto il dato rivelativo; in suo luogo si è posta la ripresa di culti pagani attinti all’antico germanesimo. Assente era dunque una visione aperta a dimensioni della trascendenza [10]. E perciò il mito nazista non può essere confuso con un mito sacrale. Il suo mondo non è sacrale, ma tutt’al più sacroidale, se col termine «sacroide» intendiamo quanto sostituisce il sacro e colma il vuoto rivelativo, presente in una società desacraliz_ zata [11]. Mito-rito-trascendenza (o rivelazione) è una combinazione che ci dà una soluzione sacrale; tolta la trascendenza (tanto più la rivelazione) mito e rito si possono dischiudere a qualsiasi avventura.

      Per dare una sintetica conclusione a queste osservazioni, intendo dare evidenza quanto segue:

a)   l’errore di chi ritiene che una collettività possa reggersi senza un proprio mito politico;

b) l’idea che la presenza del mito politico comporti necessariamente il dominio dell’irrazionalità e dell’oscurità derivata dalle suggestioni e dal pregiudizio;

c)  la necessità che il mito politico, in assenza di visioni mitico-rivelative, mantenga comunque un’apertura a dimensioni di trascendenza, che riequilibrano le chiusure ideologiche [12];

d)   una collettività che stenta a riconoscere il proprio mito politico, o che addirittura ne è priva, non ha che tre alternative: la disgregazione, il cadere preda di insorgenti e incontrollabili miti archetipali, il fi nire assoggettata a miti altrui.

      Attualità del mito? Questo era il tema generale proposto. Risposta: sì; anzi, necessità, diremmo meglio. Ma non è una risposta descrittiva, soprattutto se ci riferiamo alla nostra odierna realtà europea. Mi fermo a quest’ultima. L’esempio dell’attuale Europa è sotto gli occhi di tutti. Ci induce a pensare, tutt’al più, a miti regressivi, cioè da una parte a miti meramente connessi col corporeo e col benessere fi sico-materiale e, dall’altra, a miti solo imitati, riflessi e provincialmente importati e per lo più effimeri come le mode superficiali. Siamo nell’ordine dei conformismi e delle rivendicazioni. Quanto agli autoinvestitisi costituenti di un’Europa unita, per rimanere nell’esempio, essi hanno ignorato completamente la necessità di farsi interpreti di una realtà di natura mitica – che non sapevano, comunque, dove e come trovare – immaginando di contro una grande comunità senza alcun mito fondativo storicamente radicato; in suo luogo hanno introdotto discussioni intellettualistiche, spesso cervellotiche e perfino tendenziosamente ideologico-programmatiche, per costruire a tavolino proclamazioni di preamboli costituzionali. La lontananza da miti politici fondativi non può essere più evidente. Per guardare al futuro l’Europa non può certo prescindere dal suo passato. Per civiltà che hanno alle loro spalle una storia lunga e culturalmente densa, l’aggancio col passato è indispensabile per guardare al futuro, ma rende più difficile sostenere gli oneri del presente. In ogni caso non sono pochi i sintomi che invitano ad estendere molti tratti di questa situazione alla civiltà occidentale in generale [13].

      È pensabile, dunque, immaginare un mito di appartenenza nella mentalità attualmente corrente? Nessuno può stabilirlo a priori; chiunque, però, è in grado di comprendere che non ha senso cercarlo in formulazioni di principio. Sembra un consiglio saggio quello di imparare a prendere misurate distanze dalla realtà sociale, così come essa è comunemente vissuta, se si vuole recuperare un Lebensinn e porre le condizioni per non lasciarsi fagocitare dal nulla o dall’arbitrio. I mezzi più effi caci sono l’ironia e la preghiera. Sono distanza e vicinanza insieme. L’ironia, che è prima di tutto autoironia, è l’autocoscienza che relativizza la portata delle scelte e con consapevolezza surroga nell’immanenza il vuoto aperto dalla secolarizzazione. La preghiera segna il dischiudersi dei confini che circoscrivono il senso della vita. Sotto un profi lo etico si è tentati di sostenere, con riferimento alla vita collettiva del presente ed usando un’antica tripartizione neoplatonica, che chi non prega e non è ironico assomiglia ad un essere «ilico», chi prega senza essere ironico o è ironico senza pregare assomiglia ad un essere «psichico», chi prega ed è ironico assomiglia ad un essere «pneumatico».

 

01.   Cfr. F. Nietzsche, Umano troppo umano (1880), II, 2-220.

02.   Per precisazioni sul significato di massa adottato rinvio al mio Massa. Dall’inquadramento ideologico al governo burocaotico, in «Incursioni» IV, 4, marzo 2009, pp. 9-19. Un’utile introduzione al concetto sono J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, tr. it., il Mulino, Bologna 1984 e Leopold von Wiese, System der allgemeinen Soziologie, 2te Aufl ., Duncker & Humblot, Berlin 1933.

 

03.   Cfr. E.Husserl, Philosophie als strenge Wissenschaft, Klostermann,Frankfurt a.M.1965, p.48.

 

04.  Il concetto di immaginale, diversamente contestualizzato, trova una precisa collocazione teorica in F. Creuzer, Symbolik und Mythologie der alten Völker (1819) con l’aggiunta del 1839, e in H. Corbin, L’imagination créatrice dans le soufi sme d’Ibn ‘Arabî, Flammarion, Paris 1985 e Temple et contemplation, Flammarion, Paris 1980.

 

05.   Sto usando qui il concetto di utopia nel suo significato stretto, ossia di visione contrapposta alla realtà e consapevolmente inattuabile, luogo ideale di una sovranità dell’intelligenza umana che contrasta la sovranità di chi governa, dove la creatività umana rivendica la propria assoluta indipendenza da ogni altro potere. Potrebbe, perciò, fuorviare se si leggesse qui l’utopia esclusivamente alla luce di contestualizzazioni sociologiche, come accedendo alla ben nota nozione che si ricava da K. Mannheim, Ideologie und Utopie, Bonn 1929, tr. it. Ideologia e utopia, il Mulino, Bologna 1957. Importanti riprese, cariche di sintonie con l’opera ora citata sono reperibili in K. Jaspers, Die geistige Situation der Zeit, De Gruyter, Berlin 1931.

 

06.    Cfr. di W.Fr. Otto soprattutto Die Götter Griechenlands, Cohen, Bonn 1929; K. Kerény, Gli dei e gli eroi della Grecia, tr. it., Il Saggiatore, Milano 1962; s.a. La religione antica nelle sue linee fondamentali, tr. it., Zanichelli, Bologna 1940; s.a. Miti e misteri, Einaudi, Torino 1950; M. Eliade, Mito e realtà, tr. it., Borla, Torino 1966. Per spunti critici, sensibili all’analisi simbolica, cfr. Luigi Alfieri, Identità e irrazionalità collettiva, in C. Bonvecchio (ed.), L’irrazionale e la politica. Profili di simbolica politico-giuridica, Ed. Università di Trieste, Trieste 2001.

 

07.    Cfr. R. Barthes, Mythologies, du Seuil, Paris 1957, ora in tr. it., Miti d’oggi, Einaudi, Torino 1994, 2° ed., in particolare pp. 189-238. Il simbolo si distingue dal segno, che è solo informativo, allusivo o sintomale e che perciò si fonda sulla distinzione tra signifi cante e signifi cato, per alcuni caratteri fondamentali. Essi sono: la costitutività, la non arbitrarietà, la specularità, il valore identitario, il valore energetico, l’enantiodromia. Per precisazioni intorno a questi caratteri rinvio a G.M. Chiodi, Propedeutica alla simbolica politica, I, Franco Angeli, Milano 2006, lezione IV.

 

08.     Seattle, capo pellerossa della tribù Suquamish, rispose nel 1853 alla richiesta, avanzata dal presidente degli Stati Uniti Franklin Pierce, di consegnare al governo federale il suo territorio: «Qualsiasi cosa accada alla terra, presto accadrà ai fi gli della terra. Se l’uomo sputa sul terreno, sputa su se stesso. Questo noi sappiamo: la terra non appartiene all’uomo, l’uomo appartiene alla terra [...] La fine della [sua] vita è l’inizio della sopravvivenza». La citazione è tratta da R. Taraglio, Il vischio e la quercia. Spiritualità celtica nell’Europa druidica, Edizioni L’età dell’Acquario, Grignasco (No) 1997, p. 14, dove è detto che la fonte documentaria è presso lo «Smithsonian Institute – Washington D.C.» e presso gli «U.S. Congressional Archives of Library».

 

09.    L’osservazione si fonda su un preciso assunto della simbolica politica. Ogni organismo vitale, e quindi anche una struttura istituzionale, per godere di un funzionamento equilibrato, stabile e al tempo stesso capace di evolversi in maniera adeguata, richiede la compresenza dei due principî vitali, maschile e femminile. L’uno è performativo, autoritativo e direttivo, l’altro fluido, ricettivo ed alimentatore. Nell’esempio di una costituzione – come si fa nel testo, alludendo al caso di Weimar – le norme svolgono un ruolo maschile rispetto alla società (rappresentano il momento autoritativo, direttivo e performativo), la società a cui esse si riferiscono svolge, invece, un ruolo femminile (fluido, ricettivo, alimentante). Per la legge della complementarietà e della compensazione dei due principî, un eccesso di autoritarismo e dirigismo da parte dell’ordinamento costituzionale provoca una reazione libertaria nella società. Viceversa un eccesso di permissività e libertarismo nelle regole istituzionali suscita nella società, per compensazione, istanze autoritative e richieste di ordine. Questo secondo è appunto il caso della repubblica di Weimar. Ho esposto in maniera più articolata queste considerazioni in due miei lavori, Weimar. Allegoria di una repubblica, Arca, Torino 1979 e Sul diritto europeo. Nota di simbolica giuridica, in «Sviluppo dei diritti dell’uomo e protezione giuridica», a cura di L. D’Avack, Guida, Napoli 2003, pp. 73-90.

 

10.     Preciso che sacro e trascendenza, in termini simbolici, non sono concetti correlati. Il sacro ha natura rivelativa e come tale non distingue tra immanenza e trascendenza, la cui contrapposizione ha natura filosofi co-speculativa.

 

11.    Per avere contatto con un’indagine nell’attualità, che applica il concetto di sacroide – che, però, non ha nulla a che vedere con l’esempio del nazionalismo, di cui parlo nel testo – cfr. G. Parotto, Sacra officina. La simbolica religiosa di Silvio Berlusconi, Postfazione di G.M. Chiodi, Franco Angeli, Milano 2007 e, in versione riveduta, Silvio Berlusconi. Der doppelete Körper des Politikers, Vorwort Claus-Ekkehart Bärsch, Fink, München 2009.

 

12.    Sul ruolo irrinunciabile di un fattore di trascendenza, visto in termini di rivelazione, ha valore emblematico la seguente affermazione: «se ci chiediamo qual è l’origine e il fine della vita umana, la risposta ci rinvia senz’altro alla fede rivelata, al di fuori della quale non c’è che nichilismo» (K.Jaspers, La fede filosofica, Raffaello Cortina, Milano, 2005, p.61).

 

13.   Su fenomeni regressivi dovuti al declino del ruolo della parola scritta, sostituito dall’oralità e dai mezzi audiovisivi cfr. le tesi di M. McLuhan, in AA.VV., Mythostheorie, Reclam, Stuttgart p. 121.

 

 

ABSTRACT

 

      Having recalled some of the basic socio-cultural characteristics of our time (the automatic reproduction of technologies, the adoption of bureaucracy as a mere formality, individualism en masse) the paper identifi es myth to be a fundamentally sacred element, that displays the truth in an almost revelatory way and while this cannot be denied if one takes an intellectual stance, it can be symbolized in a ritual fashion. The piece takes off from this assumption, distancing itself from a purely «irrational» interpretation of myth, and goes on to highlight the main criteria that identify the political myth, showing that the political myth is a requisite for the creation of any cohesive political community.

 

      Dopo aver richiamato alcune caratteristiche socio-culturali di base della nostra epoca (autoriproduzione cieca delle tecnologie, burocratizzazione meramente procedurale, individualismo di massa) il saggio individua nell’elemento sacrale il tratto fondante del mito, ovvero nella manifestazione per via ritenuta rivelativa di un contenuto veritativo non riducibile dal punto di vista intellettuale ma capace di essere simbolizzato in modo rituale. A partire da questo assunto, che prende le distante da una concezione puramente «irrazionalistica» del mito, vengono individuati i principali criteri identificanti del mito politico, che illustrano la necessità di quest’ultimo ai fini della realizzazione di una comunità politica coesa.