DOMENICA MAZZÙ

 

RAGIONE E RAGIONI DELLA SIMBOLICA POLITICA - Colonne ofitiche (Napoli, 2013)
 


      Accolgo molto volentieri l’invito a partecipare al presente volume che raccoglie i più recenti contributi di studiosi con i quali ormai da decenni condivido, nell’analisi e nell’interpretazione dei fenomeni politico-sociali, il ricorso al patrimonio mitico-simbolico come strumento ermeneutico di primaria importanza in grado di recepire istanze disattese dai tradizionali approcci analitici. Ritengo infatti molto utile consolidare nella scrittura gli spunti di riflessione che conseguono ai momenti di proficui confronti seminariali e ai dibattiti sempre più frequentemente organizzati nell’ambito degli studi di Simbolica politica. Pertanto, colgo qui l’occasione per esprimere una doppia esigenza. La prima, è quella di ripercorrere molto brevemente alcuni dei passaggi fondamentali attraverso i quali le ricerche sul simbolico, estese al campo della filosofia politica e del diritto, si sono radicate fino a dar vita a discipline specifiche, dotate di un loro peculiare spazio e di una loro specifica metodologia. La seconda, collegata alla prima, nasce dalla considerazione che il riconoscimento fattuale e formale delle discipline inerenti alla Simbolica politica ripropone quella che, forse impropriamente, definirei l’istanza di legittimazione teoretica, con tutto il prevedibile bagaglio di paradossi e contraddizioni per chi ne ha vissuto “partecipativamente” nascita e sviluppo.
      Partendo dalla mia diretta esperienza, posso affermare che, benché presente sin dall’inizio della mia attività di ricercatrice, la propensione a individuare e soppesare le valenze simboliche dei fenomeni politici, diventa una vera e propria urgenza teoretica a partire dalla prima fatica monografica, pubblicata nel 1986 con il titolo Il complesso dell’usurpatore. La peculiarità dell’argomento che vi affrontavo, focalizzato sulla fondatezza o infondatezza del potere e, in specie, del potere politico, rinviava lo sguardo ben oltre i confini disegnati e nettamente segnati dagli strumenti analitici che, validi a sezionare la nomostatica del potere, si rivelavano inefficaci a vivisezionarne e sotterrane le dinamiche.
      Sull’inadeguatezza di quegli strumenti, d’altronde, e sulla conseguente necessità di una ridefinizione metodologica degli studi filosofico-politici, si dibatteva già dalla fine degli anni Settanta, ad opera di un gruppo di studiosi provenienti da diversi atenei italiani, organizzati attorno alla cattedra di Filosofia politica dell’Università di Messina, diretta allora da Giulio Maria Chiodi, e collegati dallo stesso “fervore” verso un progetto di rottura e innovazione delle regole imperanti nella sfera degli studi politico-sociali.
Progetto pioneristico, la cui realizzazione non era affatto scontata in tempi in cui una sorta di implicito ma consistente “veto accademico” tabuizzava l’approccio simbolico proposto, in difesa dei diritti dell’immaginazione e del diritto all’immaginazione, con concreti esperimenti, divenuti oggi testi fondativi [1].
      Eppure, in quegli anni, una palpabile crisi – abbastanza riassunta da un famoso ma non risolutivo dibattito tra Adorno e Popper [2] – evidenziava l’esigenza di strumenti di conoscenza alternativi, che sottraessero l’indagine alla duplice esclusività, quella positivistica e quella razionalistica, e che spingessero la ricerca oltre il concetto classico di scientificità verso il recupero di fenomeni non riconducibili alle tradizionali categorie logiche.
      L’avventura intellettuale maturata a Messina in questo quadro storico e teoretico si ufficializzava nel 1989 con un primo convegno dal titolo L’immaginario e il potere che, conferendo forma scientifica e consistenza teoretica a quel progetto, avrebbe dato vita anche alla struttura istituzionale denominata Centro Europeo di Studi su Mito e Simbolo, ancora oggi operante in collaborazione con altre sedi universitarie, all’interno delle quali si sono costituiti ulteriori Centri di ricerca dedicati all’approfondimento degli studi di Simbolica politica [3].
      L’orgoglio per la realizzazione e il successo del nostro progetto risalta ancor più se consideriamo che esso ha avuto, nei primi decenni del secolo XX, un antecedente non andato a buon fine. Anche allora si era di fronte a una crisi di ampia portata, che toccava i più svariati settori e, sul piano della riflessione epistemologica, metteva in discussione lo statuto e gli strumenti delle scienze sociali, manifestando il bisogno di un loro radicale ripensamento. Gli studi sulle forme simboliche di Cassirer come pure il crescente interesse per le teorie psicanalitiche e, in particolare, la ripresa delle teorie di Le Bon sulla psicologia di massa [4] sono esempi evidenti di un fermento di idee nuove che investiva in pieno il pensiero democratico-liberale mettendone in crisi i presupposti razionalistici. Tuttavia l’atmosfera che si respirava in quell’epoca carica di contraddizioni impresse una direzione del tutto imprevedibile al pur fecondo movimento intellettuale che faceva lievitare sogni e speranze. L’attenzione a nuove forme di conoscenza extralogiche, intuitive, non dimostrabili, invece di dischiudere gli orizzonti di libertà creativa che pure prospettava, divenne il fondamento teoretico e psicologico per il radicarsi di comportamenti politici totalitari, basati su pseudoverità “trascinanti”, elevate a credo semireligioso [5].
      Vittima eccellente di questa reazione abnorme fu proprio il concetto di “mito politico” che, nato nei primi decenni del secolo dalla sinistra rivoluzionaria di Georges Sorel, sulla scia dell’antipositivismo, e attratto nella polemica razionalismoirrazionalismo propria dell’epoca, andò incontro ad una sorta di mutazione genetica, divenendo strumento pratico della destra conservatrice e nazionalista [6].
      Certamente le peculiarità del concetto di “mito” facilitarono questa aberrazione ma a determinarla fu la concomitanza di due circostanze: in primo luogo il mito, come strumento ermeneutico, fu ignorato dagli autori politici conservatori e moderati, incapaci di concepire una teoria e una pratica politica sostanzialmente organizzata sul rapporto con valori simbolici; in secondo luogo, tale concetto fu avversato dalle sinistre che, per una tipica spocchia intellettualistica, ne disconobbero del tutto le potenzialità e lo destinarono al rango di immaginazione velleitaria e persino reazionaria. Col senno di poi, è plausibile analizzare questo singolare destino dentro lo schema di quella che i sociologi definiscono una “profezia autoavverantesi”, purtroppo sempre suscettibile di avverarsi. Il timore di un supposto carattere irrazionale e regressivo delle dinamiche mitico-simboliche indusse i pensatori politici dell’epoca ad evitarle rigorosamente. Fu così che, privato dei necessari e specifici riferimenti teoretici, il mito, in specie il mito politico, rimase storicamente consegnato ad una sola parte che, stravolgendone la natura e le intrinseche finalità, lo trasformò, con consapevole determinazione, in strumento di lotta per la conquista ed il mantenimento del potere. Una profezia catastrofica, fondata su astratte supposizioni e ipostatizzazioni gnoseologiche, produsse quindi una reale catastrofe, dando vita a un “pregiudizio” che pesò non poco sulle successive sorti della riflessione intorno ai temi mitico-simbolici. La stessa analisi di Ernst Cassirer cambiò decisamente rotta, ritardando di parecchi decenni – appunto quelli che precedono l’inizio della nostra “avventura” – la ripresa di un discorso rigoroso sull’uso epistemologico del patrimonio mitico-simbolico prodotto nel corso dei millenni dalla fervida immaginazione teoretica degli individui di ogni tempo e di ogni luogo.
      Oggi possiamo affermare senza tema di smentita che il punto di forza del gruppo di ricerca operante presso il Centro Europeo di Studi su Mito e Simbolo, sta nell’avere attraversato indenni il difficile passaggio tra Scilla e Cariddi, ovvero tra considerazioni velleitarie e strumentalizzazioni reazionarie, senza abbassare mai la guardia rispetto al rischio ideologico del contagio con razzismi, nazismi, comunismi, totalitarismi e, insomma, con gli -ismi di ogni sorta, ivi compreso quello scientismo positivista – di destra o di sinistra – che, demonizzando l’irrazionale, ne esalta la versione diabolica e ne mortifica la naturale declinazione simbolica. Nel percorso di rievocazione del senso perduto e della sua possibile proiezione futuricentrica, infatti, è giocoforza assumere pienamente il dato che se è vero che l’homo simbolicus può essere portatore sano dell’homo diabolicus, tuttavia non è mai vero il contrario. Questa affermazione varrebbe comunque, quand’anche sottintendesse un’illusione epistemologica. L’illusione, invero, nella misura in cui produce effetti reali, diventa facitrice di realtà. Non a caso nei Sepolcri il Foscolo la esalta come “menzogna vitale”.
      Proprio in virtù dell’implicito rischio diabolico, percepito nella sua concreta incombenza, ancora oggi, ogniqualvolta un oggetto di studio si presenta suscettibile di entrare nell’ottica simbolica, scatta dalle profondità più remote della nostra coscienza teoretica l’istanza kantiana di legittimazione dello strumento, ovvero il bisogno di tradurlo di fronte al tribunale di quella che, con una suggestiva analogia, che mi accingo ad illustrare più avanti, mi piace definire la Ragion pura simbolica, essa stessa permanentemente sottoposta a critica, per sondarne le potenzialità, e valutarne i titoli.
      Ciò non serve a sfatare sospetti, ma a ripartire sempre daccapo, mantenendosi in permanenza disponibili ad una sorta di simbolico redde rationem, che non è un semplice rendere conto, bensì un raccontare, riprendendo le fila del discorso, per non disperdersi e quindi perdersi in questo pluridecennale libero pascolare in prati senza steccati o paranoiche esclusioni; libero non nel senso dell’allégresse de liberté, del delirio di libertà; libero come può esserlo il patire quando è effetto di una passione; libero come è libero lo spirito che si lascia catturare dai dati per sprigionarne il senso più recondito.
      Ci si chiede, tuttavia, come si concilia questo redde rationem, che evoca in qualche modo un ricondursi “dentro le righe” per “rigare dritto”, con la peculiarità di un pensare nato proprio dal “rompere le righe”. Cosa si ha di mira nel disporsi a render conto? Ragionarci sopra? Creare nessi logici? E ciò che logico non è?

      Sorge spontanea la metadomanda: è legittima l’istanza di legittimazione del pensiero simbolico? Non somiglia piuttosto a quell’inquietudine impertinente, comune tanto al bambino quanto allo scienziato, che li spinge a rompere il giocattolo per guardarci dentro e vedere come è fatto? Eppure, lo sappiamo tutti che, palesato, il meccanismo non restituisce più il fascino del mistero che lo avvolgeva. Rotto, il giocattolo, non funziona più, interrompendo proprio quella magia che è l’essenza della sua vitalità. Rotto, il giocattolo è anche morto.

      Fuor di metafora, ci riferiamo evidentemente a due istanze difficili da conciliare: mantenere intatta l’essenza vitale dell’oggetto e, al contempo, soddisfare l’esigenza sistematica del pensiero. Da un punto di vista ermeneutico si potrebbe delineare un conflitto in relazione al quale, però, lo sguardo simbolico non è soltanto una parte o una controparte, ma lo spazio stesso dell’emergenza del conflitto. Questo è il punto: il conflitto sorge all’interno della stessa ermeneutica, quella simbolica, giacché la sregolatezza, che pur le è congeniale, non appare sufficientemente regolativa, ma la regola, che potrebbe colmare l’insufficienza, non le è congeniale [7]. Regola e sregolatezza: entrambe croce, entrambe delizia di un’ermeneutica le cui passioni restano del tutto sconosciute alle costruzioni logico-sistematiche del pensiero analitico.
      La difficoltà è ancora più evidente per chi utilizza il patrimonio simbolico non tanto come oggetto di studio ma come strumento metodologico [8]. Se il metodo richiede anche la definizione, è definibile un fenomeno, come il processo di simbolizzazione, che interviene ai più diversi livelli dell’esperienza umana e investe non il cosa ma il modo di rappresentarsela? Nel de-finire si ha di mira il con-finare per esorcizzare il rischio della fine o lo scon-finare per prospettare ulteriori ma precostituiti fini? Nel primo caso la dinamica propria del simbolico verrebbe soffocata; nel secondo verrebbe contraddetta. Le coordinate del processo simbolico, infatti, sono al massimo presupponibili ma non precostituibili. La conclusione è simile al finale di un racconto del quale anche il narratore è ignaro: il risultato sarà simbolico se lo sarà, ovvero sprigionerà potenza simbolica se l’avrà condensata nel corso del suo procedere. Oppure no.
      L’istanza di legittimazione, quindi, sembra sollevare più domande che risposte e, tuttavia, per il suo stesso proporsi, esprime un bisogno che merita considerazione.
Riservandomi di dedicare a questa problematica il dovuto approfondimento, mi limito qui a fornire qualche spunto di riflessione sui due termini di più frequente uso all’interno delle nostre ricerche: la simbolica e il simbolico [9]. Si tratta di due aggettivi sostantivati che, appunto, attendono il loro significato dal sostantivo sotteso.

      Per quanto attiene all’espressione la simbolica, ci interroghiamo su la che cosa simbolica: la scienza, la teoria, l’ermeneutica, l’ottica, etc. Comunque la si voglia coniugare, la simbolica sembra rinviare all’ambito del sapere, collegandosi all’esigenza sistematizzante. Sotto quest’aspetto, l’espressione presenta una doppia valenza: per un verso assume come implicita l’idea di una teoria generale che organizzi i dati fondamentali e le problematiche anche metodologiche relative ai processi simbolici; per l’altro verso, sembra rinviare ad una sorta di metaermeneutica, luogo, insieme, della “complementarietà” e della “solidarietà” delle diverse ermeneutiche, che è più della tradizionale – eppure tanto osteggiata – interdisciplinarietà [10].
      Analogo ragionamento vale per il simbolico, espressione evocativamente neutrale, che guarda ad una sorta di primordialità, precedente le sopravvenute separazioni e gli imposti distinguo. Rispetto a la simbolica, il simbolico non rinvia tanto al sapere quanto all’oggetto del sapere. E non si tratta di un oggetto univoco, né equivoco ma predisposto ad una significazione multivoca: il simbolo.
      Anche per il simbolico si delinea una doppia valenza: quella statica ed effettuale che rileva ai fini del risultato prodotto, quella dinamica e causale che rileva ai fini del processo che lo produce [11]. Se, come afferma Hegel nella Prefazione alla Fenomenologia, il vero è l’intero, dunque il processo più il risultato, il simbolo e il simbolico sono due facce essenziali della stessa realtà.
      Consideriamo, a questo punto, plausibile l’idea che la simbolica abbia il compito di governare la complessità della dinamica che li congiunge, evitando da un lato l’inseità ipostatica di un risultato che ignora il processo da cui risulta e, dall’altro, il vuoto fluire di un movimento che non si condensa mai in uno stato, in uno stare.

      Essa svolgerebbe, così, una funzione di sintesi trasversale che ricorda molto da vicino la centralità assunta nel criticismo kantiano dal concetto di “categoria” [12].
      Proprio da Kant, magistrale artefice delle sintesi trasversali, potrebbe, pertanto, pervenire il suggerimento di una sorta di schema trascendentale della simbolica, che trovi il suo a priori nella trasversalità, esattamente come la sintesi a priori kantiana. Mentre, però, quest’ultima scatta in presenza dell’oggetto, il sapere simbolico si genera sempre e solo in virtù dell’assenza dell’oggetto.

      L’assenza, qui, non significherebbe inesistenza. Al contrario, l’oggetto del sapere simbolico, seppure assente, vive e agisce. Ragione vuole che l’esistente, se vive e agisce, venga teorizzato, entri nel pensiero, si moduli con i suoi schemi, si comprometta, cioè si prometta, rendendosi fruibile dentro un sistema di garanzie che lo vincolino a mantenere la promessa, cioè a soddisfare l’esigenza della teoria, che è quella di orientare la prassi fornendo ad essa elementi di prevedibilità e di controllo, insomma elementi di verifica, pezze d’appoggio da utilizzare al momento della resa dei conti, del redde rationem.
      Quale ragione vuole tutto questo? Quali titoli presenta per ottenerlo? A quale tribunale si rivolge? Difficile non percepire l’analogia tra questi interrogativi e le istanze che fanno da pilastri teoretici all’edificio della ragion pura. Riprenderei, pertanto, una suggestione già lanciata all’inizio di questa breve riflessione, proponendo più concretamente e consapevolmente di indicare proprio nella ragione il sostantivo sotteso all’espressione la simbolica e di immaginare sul modello kantiano la possibilità di una Critica della Ragion pura simbolica. Intendiamo una critica che non riguardi i contenuti di quella ragione, ma le modalità del suo funzionamento e i titoli che presenta, in sede ermeneutica ed epistemologica, per legittimare la produzione di un sapere universalmente simbolico, nonché il prezzo che tale pretesa di legittimità deve essere disposta a pagare.
      Ricordiamo, infatti, come la sintesi che convalida il sapere scientifico avvenga in presenza di un dato empirico che, tuttavia, solo parzialmente si consegna alla conoscenza, trattenendo in-sé il proprio in-sé. Da qui il senso ultimativo della riflessione kantiana: la scienza è possibile a patto che si rinunzi all’onniscienza. Il sapere, cioè, deve pagare con una parte viva di se stesso, carne della propria carne, il prezzo della sua pretesa di universalità.
      Analogamente, sul piano simbolico, dove è l’assenza dell’oggetto che fa scattare il dispositivo del sapere, possiamo affermare che la conoscenza è possibile a patto che si rinunzi alla presenza, accettando l’assenza come portatrice di significato, ovvero come segnalatrice e presentificatrice, ovvero, ancora, come veicolo di qualcosa piuttosto che di nulla. Il che vuol dire a patto che si rinunzi alla pienezza dell’essere per accogliere il nulla, che è nulla solo se è nulla di significato, solo se non è segno dell’essere e precisamente dell’essere-altro. Simbolica sarebbe allora la ragione capace di trasformare il nulla in segno dell’essere. Di quale essere? Dell’essere assente, dell’essere che manca e che può soltanto essere segnalato. Millenni di riflessione filosofica ci hanno abituati a dare nomi diversi a ciò che manca, elaborando una molteplicità di simboli per rappresentare la mancanza, che resta comunque identica nel suo significato esperienziale.
      Concludo osservando come, nel governare la dinamica innescata dalla mancanza, la simbolica finisce con il produrre una funzione regolativa che, interfacciando il processo con il risultato, il simbolico con il simbolo, evita il delirio sostantivo di quest’ultimo, diciamo pure lo “desostantivizza” [13], ma evita altresì la mala infinità di un divenire che nichilisticamente tutto assolve e dissolve.

      Desostantivare il simbolo, tuttavia, non è un’operazione del mero intelletto, ma una decisione da assumere, un verdetto da pronunciare, «facendo violenza ad una nostalgia dell’infanzia», che permane dentro di noi «come un fuoco mal spento» [14]. Tramite quel verdetto accettiamo il fatto che il simbolo non è dio, bensì ciò che manca per diventare dio. Se, infatti, ciò di cui il simbolo è simbolo fosse presente in una forma diversa dall’assenza, ciascuno di noi avrebbe già realizzato quello che invece resta il sogno più prezioso di ogni uomo di ogni tempo e di ogni luogo: essere al contempo se stesso e il proprio dio.

NOTE

01. -Per una bibliografia dettagliata si rinvia alla voce “Simbolica politica” su Wikipedia.

02. -AA.VV., Dialettica e positivismo in sociologia, Einaudi, Torino 1972.

03. -Per una conoscenza più dettagliata delle attività di ricerca e delle iniziative culturali della Scuola di Simbolica politica si rinvia al sito www.symbolicum.org.

04. -Ho approfondito queste riflessioni nel saggio Miti e simboli nella politica. Tra destra e sinistra, in D. Mazzù, Tebe e Corinto. Sul figlicidio (Giappichelli, Torino 2003, pp. 129-171), cui rinvio anche per i relativi riferimenti bibliografici.

05. -Per una densa sintesi del contesto storico-culturale che ha fatto da sfondo all’elaborazione strumentale del “mito politico”, cfr. T. Bonazzi, voce Mito politico, in Dizionario di politica, a cura di N. Bobbio e N. Matteucci, UTET, Torino 1976, pp. 587 e sgg. Per rappresentare la vicenda intellettuale di quest’epoca, sul piano storico-politico, non c’è esempio più pregnante della Repubblica di Weimar (cfr., a proposito, l’illuminante analisi contenuta nel saggio di G. M. Chiodi, Weimar. Allegoria di una repubblica, L’Arca, Torino 1979).

06. -Georges Sorel teorizza esplicitamente il concetto di “mito politico” quale espressione intuitiva di una precisa volontà, innervata nel reale e concreto modo di essere e di agire di un popolo, di un partito, di una collettività e, insomma, di un gruppo organizzato. Tale teorizzazione, pur avendo un obiettivo pratico, finisce per avere degli effetti sul piano teoretico ed epistemologico, sollecitando un ripensamento che mira a produrre una conoscenza più immediata, diretta a rendere manifesta la coscienza di classe senza bisogno di mediazioni intellettualistiche, ormai oggetto di sfiducia da parte del proletariato (G. Sorel, Riflessioni sulla violenza, trad. it., in Scritti politici, UTET, Torino 1963, pp. 235-247).

07. -L’idea che la simbolica sia da considerare l’ambito all’interno del quale si sviluppa e si consuma la conflittualità piuttosto che una delle parti del conflitto, mi pare in linea con l’argomentazione di Giulio M. Chiodi che, nel secondo volume della Propedeutica alla simbolica politica, a conclusione dell’excursus VIII, evidenzia quello che definirei il carattere segmentario della ragione sistematica. Chiodi, sottolineando l’esigenza della costruzione razionale e sistematica del reale, presente in tutte le culture e le epoche fondamentali della civiltà occidentale, afferma che essa «risponde ad una sollecitazione simbolica». Più precisamente, la razionalizzazione sistematica prospetta quella totalità che, sola, può coprire il vuoto simbolico, chiaramente percepibile in assenza di riferimenti sacrali. In virtù di questa sua funzione, Chiodi colloca l’attività razionale all’interno di un segmento che patisce il condizionamento di premesse e finalità estranee alla procedura razionale e ricadenti nell’orizzonte del simbolico (cfr. G. M. Chiodi, Propedeutica alla simbolica politica, II, FrancoAngeli, Milano 2010, in part. p. 30).

08. -Concordo pienamente con le osservazioni di Giulio M. Chiodi che dedica le pagine introduttive di uno dei suoi più recenti volumi, La coscienza liminare. Sui fondamenti della simbolica politica (FrancoAngeli, Milano 2011) a mettere in guardia circa l’atteggiamento superficiale di chi intendesse trattare della simbolica senza tener conto dell’importanza dei problemi emergenti in sede di teoria e di metodo.

09. -Un’ampia e sistematica riflessione, anche terminologica, sul punto, è contenuta nei già citati volumi di G. M. Chiodi sulla Propedeutica alla simbolica politica (I e II) e sulla Coscienza liminare. Le brevi osservazioni che vado esponendo in questa sede sono da me pensate in forma parallela e, direi, sperimentale rispetto alla strada maestra ivi tracciata, riguardando piuttosto spunti, anche metodologici, rimasti un po’ ai margini di quella strada, ma dal mio punto di vista con essa congruenti.

10. -Sulla complessità di questa tematica, cfr. anche R. Alleau, La scienza dei simboli, trad. it., Sansoni, Firenze 1983, in particolare, l’Introduzione, pp. 7-20).

11. -R. Alleau sottolinea come questa doppia valenza trovi fondamento e conferma nell’etimologia stessa della parola simbolo (cfr. ivi, pp. 15-19).

12. -Mantenendosi nell’ambito kantiano, viene spontaneo riferirsi al giudizio riflettente, per il quale – dato un oggetto già conosciuto dal punto di vista “scientifico” – è possibile riflettere su di esso per riferirlo ad un elemento di universalità che non è più quella dell’a priori scientifico, elaborata nella Critica della ragion pura, bensì quella derivante dalla Critica del giudizio. In tale giudizio, la sintesi avviene con un dato che è stato già a sua volta sintetizzato, quindi contiene già una forma, è già veicolo di un peculiare tipo di comunicazione che non è quello attinente le scienze sociali, dove il “conoscere” può comportare la necessità di ritornare sull’oggetto “conosciuto”, per giudicarlo da un altro punto di vista, secondo categorie non dell’intelletto, ma dell’immaginazione. Voglio sottolineare qui che il tema della fruibilità giuridico-politica dello schema del giudizio riflettente è stato oggetto di una breve ma densa e lucida riflessione di Giulio M. Chiodi (cfr. Equità. La regola costitutiva del diritto, Giappichelli, Torino 2000, pp. 187-194). L’analisi del rapporto tra giudizio riflettente e giudizio giuridico, che l’Autore imposta focalizzando l’attenzione sulla categoria dell’equità, fornisce già gli elementi necessari all’impianto teoretico che, per analogia, può essere utilizzato, e a mio avviso è auspicabile che lo sia, nell’ambito della simbolica politica e giuridica.

13. -Nella prospettiva del processo, si tratta infatti di «“desostantivare” il simbolo, di non farne più un “sostrato”, una realtà “in-sé”, di non confondere più un prodotto con il suo produttore, una conseguenza con la sua causa, ma di restituire alla dinamica della vita della natura e dello spirito, dell’immaginazione e della ragione, la realtà dialettica delle loro operazioni» (R. Alleau, La scienza dei simboli, cit., pp. 15-16).

14. -Così si esprime G. Marcel, parlando della morte di Dio in L’uomo problematico, trad. it., Borla, Torino 1964, p. 116.