GIULIO MARIA CHIODI

 

Sulla “parola” come triplice radice simbolico-elementare della cultura euroccidentale. Rapide considerazioni, di sfondo per un ciclo di ricerche di filosofia simbolica epocale.

 
      Spunto - La presente è una semplice traccia problematizzante o un generico quadro propositivo che, prendendo spunto dalla simbolica politica generale, tocca argomenti di grande portata interdisciplinare. Lo scopo è di offrire lo sfondo generale a una proposta di ricerca e di studio a più voci, che apre una problematica vastissima e multiforme, qui indicata nell’ambito di una formulazione di ampio spettro, a partire dalla quale costruire adeguate ipotesi di lavoro. L’idea centrale prende spunto dalle indagini propedeutiche che ho dedicato allo studio simbolico-politico di alcuni elementi fondamentali della civiltà euroccidentale, desunti dalle antiche società sacrali (egizio-mesopotamiche), da quelle ebraica, greca, romana e celtico-germanica, che nel tempo si sono variamente fusi. Se l’esposizione può apparire apodittica, ciò è dovuto all’esigenza di puntualizzare con la massima chiarezza la tematica, pur rimanendo in questa sede soltanto orientativa e soggetta alle revisioni che parranno più opportune.

      Il nostro argomento concerne una radicalità primaria, fondante e qualificante la natura più connotante della civiltà occidentale; e qui caratterizzazione non significa, ovviamente, esclusività, ma solo primaria struttura connotativa. L’oggetto proposto è la parola, qui messa in primo piano non già in una o più sue definizioni (che della parola parlano solo con la parola) e senza pretesa di indagare o individuarne la sua origine, ma soltanto assumendola in talune specificità della sua eredità culturale all’interno della civiltà euroccidentale e limitatamente all’ipotesi propositiva, che ci fa da guida.

      Sarà certamente riduttivo affermare che la nostra è una civiltà della parola; ma rimane innegabile che questa nostra nostra civiltà si è costruita e sviluppata sulla parola. L’albero della civiltà euroccidentale può ritenersi nutrito, tra tanti altri, da tre fasci di radici principali, che ne fanno riconoscere le proprietà collettive più elementari e performative. Non sono certamente gli unici, ma sicuramente quelli determinanti, convergenti a far crescere il tronco di quell’albero e riconoscibili anche nella composita tradizione del cristianesimo, che della formazione dell’intera civiltà euroccidentale è stata l’indiscutibile magna pars.

      Possiamo riconoscere quelle radici nella fonte sacrale sud-mediterranea, il nucleo tipologico della quale va riconosciuto soprattutto nelle culture semitiche egizia ed ebraica, nella fonte patico-noetica greca con le sue continuità latine fortemente ibridate e nella fonte celtico-germanica, alla quale, per quanto sarà ora messo in luce, sarebbe inutilmente dispersivo aggiungere anche quella slava. Il nostro tema, sia fin da subito chiaro, non è assolutamente etnografico. Per il nostro scopo, infatti, sarà sufficiente tracciare la presenza di una oscillante e intermittente linea distintiva tra tradizione di popolazioni mediterranee e di popolazioni continentali, che attualmente, come è ovvio, si presentano completamente coibridate. Che senso ha, allora, la distinzione, per il nostro tema? Solo la seguente: anche se le une e le altre, ovviamente, contemporaneamente parlano ed agiscono, nelle mediterranee si fa protagonista la parola, nelle continentali l’azione.

      La riflessione che condurremo non ha natura storica, nel senso che non intende ricostruire passaggi, che ci condurrebbero ad interferire con una grande quantità di varianti e di diversioni. Nemmeno si vuole sostenere che solo ed unicamente quelle ora dette siano le radici dell’occidente e che solo alle modalità che indicheremo spetti la spiegazione dei caratteri espressi dalla civiltà occidentale. Nessun monopolio di giustezza di idee o di interpretazione deve ravvisarsi in quanto diremo; basta tenere presente che quanto delineiamo concerne nuclei portanti e ritenuti altamente qualificativi per la comprensione di ineludibili radici simboliche della nostra civiltà. Di queste radici mi limiterò a far cenno a un solo aspetto, che contribuisce in maniera cospicua a mostrarci i tratti caratteriali elementari essenziali, per l’appunto la parola.

      Ho accennato a un’oscillante e intermittente linea di demarcazione tra zone mediterranee e zone nordiche. Nei ristretti confini del tema che è qui proposto la designerò, come già ho anticipato, quale linea di separazione tra una civiltà della parola e una civiltà dell’azione. Uno sciocco potrà pensare che si stia dicendo che all’origine nel nord continentale si agisse e poco o nulla si parlasse e che nel sud mediterraneo si parlasse e poco o nulla si agisse; ma l’intelligente capisce subito che si sta dicendo che al nord nell’azione c’era anche la parola e che, nel sud, nella parola c’era anche l’azione. Ma usciamo da questa battuta banale.

      Lo studio della simbolica può dare un contributo allo sforzo di superamento di una relativa e reciproca incomprensione di fondo tra cultura mediterranea e cultura nordica, che talvolta affiora e che si è altresì esplicata con effetti pesanti soprattutto all’interno della civiltà cristiana. E’ un’incomprensione sulla quale, a mio parere, si sono anche consumate in buona parte le divergenze teologiche a suo tempo insorte, e tuttora in corso sotto nuove forme, per esempio, tra cattolicesimo e luteranesimo. Alla base di queste divergenze si pongono i tre fondamenti costitutivi che ora indicheremo a grandi linee e che denominiamo, rispettivamente, come parola sacrale o rivelata, parola patonoetica, e parola innaturata, coessenziata all’azione.

      Nel definirsi della civiltà che chiamiamo euroccidentale la parola ha goduto di un ruolo speciale, proprio grazie all’apporto delle civiltà mediterranee. Il termine greco lógos, per esempio, che figura nell’incipit del Vangelo di Giovanni è stato tradotto in latino con Verbum, ossia Parola, e reso nelle lingue moderne con corrispettivi lemmi. Disponiamo di tanti e approfonditi studi sull’interpretazione del termine logos, traducibile con parola, tanto nelle sue accezioni classiche quanto in quella controversa giovannea, che sarebbe insostenibile riprendere in questa sede. Sottolineiamo, invece, per effetto contrastivo, che esistono civiltà che alla parola non hanno assegnato un ruolo altrettanto fondativo; così è, per esempio, delle civiltà dell’America precolombiana e di talune africane, che si sono costruite più a partire da basi gestuali e rituali che non verbali. Ho avuto occasione, in proposito, di ottenere interessantissime delucidazioni da una mizteca del Nicaragua, moglie di un archeologo olandese e studioso di quelle civiltà. Da lei ho appreso come la consuetudine di quei popoli, che spesso denominiamo pellirosse, è di associare il modo di essere e di comportarsi di un individuo alle proprietà di un animale (così come di un gruppo di uomini al comportamento di un gruppo di animali) e di regolarsi analogicamente di conseguenza nei rispettivi contesti connotativi. La gestualità rituale diventa, perciò, la forma costitutiva ed espressiva del modo fondamentale di pensare e di stabilire le relazioni con gli uomini e con le cose.

      Una simile costitutività ed espressività, per la civiltà euroccidentale, deve essere a pieno titolo attribuita alla parola. E’ essenziale, quindi, la domanda sulla natura fondativa e fondativamente qualificante della parola. E’ una domanda che incominciamo qui a porre senza problematizzarla sotto i profili semiotici, ma inquadrandola in una prospettiva solo simbolica.

      Lo stimolo che mi ha sollecitato a rivolgere l’attenzione alla parola, nell’ottica che stiamo tracciando, è duplice. Da un lato proviene dalla constatazione dell’impoverimento e soprattutto dall’imbarbarimento della parola, che sono in atto anche negli ambiti che dovrebbero averne particolare cura; dall’altro lato lo stimolo è scaturito da una libera riflessione intorno a intuizioni occasionate dalle differenze tra parola ebraica e parola greca e sul loro incontro nel linguaggio teologico, con la loro straordinaria incidenza sul nostro modo di pensare e di agire.

      Le radici simboliche della parola, infatti, ci portano a mettere in evidenza loro differenti caratteri di trasmissione culturale o, se si preferisce dire, modalità differenti di attribuzione originaria di senso alla loro funzione culturale e simbolica. Qui ho incominciato a pensare in particolare alla parola sacrale e alla parola patonoetica, come le abbiamo definite, intendendo entrambe in una loro tipologia.

      Parola rivelata o sacrale - La parola sacrale, di antica origine rituale, è da riferirsi, per gli specifici effetti sulla formazione della nostra civiltà, alla matrice ebraica. Pensiamo in particolare all’ebraismo, perché è principalmente a prendere le mosse da esso che si sono introdotte nella cultura occidentale le venature delle origini divine della parola. La parola ebraica è da considerarsi sacrale, perché concepita come parola di natura rivelativa, che si rapporta dunque ad una dimensione che convenzionalmente diciamo divina. E’ parola che vuole mettere in contatto l’umano con un mondo superiore e con realtà che si percepiscono bisognose di rapporto con una potenza eccedente, con un invisibile incatturabile. Più nello specifico si tratta di un invisibile potente, unico ed indeterminabile. Per tali caratteristiche quella parola chiama in causa una potenza che convenzionalmente possiamo qualificare divina, a condizione di non assegnarle un preciso ruolo, una precisa caratterizzazione, un preciso aspetto intellegibile o precise modalità di esprimersi. E’ una potenza, dunque, che non si può esaurire né nel senso di un cosmo naturale, né in quello puramente cultural-umano.

      La Torah, il testo sacro dell’ebraismo, è composto di parole ritenute immutabili e custodi della verità completa ed imperscrutabile, incircoscrivibile da qualsiasi mente umana, ancorché questa si ritenesse ispirata. Non ha senso pronunciare quelle parole senza richiamarsi al mistero di uno spirito superiore, comunque quest’ultimo venga interpretato. La parola sacrale ebraica ha la proprietà di andare oltre la natura umana, oltre la natura delle cose, oltre il naturale in sé, ma senza smentirli, senza contrapporvisi, giacché essa tutti li precede, li prevede e li pervade, di modo che essi ne conseguono. Quella parola è nel mondo solo in quanto sa esserne nel contempo dentro, al di fuori e al di sopra; il dentro, il fuori, il qui, l’altrove, l’ora non la catturano, perché sono attraversati dalla sua potenza, senza che questa rimanga racchiusa in essi o condizionata da alcunché. Si tratta di una parola intraducibile, proprio perché può avere infinite traduzioni anche tra loro incoerenti, pur nel tempo stesso non potendo averne nessuna, dal momento che il suo senso vero è unico e molteplice insieme ed è al di là di ogni esauriente dicibilità. Possiamo considerare la parola sacral-rivelata non solo come la forma più completa ed onnicomprensiva di parola in tutta la sua portata illimitata, ma anche come parola che può dare forma e senso ad ogni altra parola. Qualcosa di analogo, ma diversamente connotato, può essere ravvisato nella parola sanscrita.

      La fonte più profonda e completa della sacralità che è alla base della nostra civiltà è da ravvisare nell’Antico Egitto. E’ qui che si dispiega nella sua maggiore intensità il sacro fondativo di cui ha beneficiato l’Occidente, anche se molti suoi prodromi si devono cercare in tradizioni antico-mesopotamiche. L’Egitto non ci offre, quindi, l’unico esempio di sacralità che ci riguarda, ma certamente il più tipologico, il più intenso e totalizzante.

   Senza alcuna pretesa di voler indicare la principale fonte sacrale della parola ebraica e al solo fine di aver presente un’immagine simbolica di sostegno all’indeterminatezza della parola come tale, possiamo indicare un veicolo rappresentativo che ci dà l’idea della natura e della continuità di una visione sacrale del mondo affidato alla parola. Possiamo, cioè, immaginare la parola ebraica sorgere dal distacco da una corporeità ravvisabile nella speciale sensibilità rituale degli antichi egizi. Configuriamoci l’idea di una parola che si distacchi, per così dire, dalla sua dimora, situata nella visibilità di un geroglifico o in formulazioni rituali o nella voce di celebranti e che incominci una sua vita svincolata da qualsiasi rappresentazione, mantenendo una propria autonomia nell’invisibile, libera dal sensoriale e da ogni vincolo alla raffigurazione materiale, ma che nel contempo conservi i caratteri sacrali acquisiti nei luoghi, nelle immagini, nei riti, nei quali era nata e aveva dimorato. Pensiamola conservando la sua sacralità e per di più, grazie al distacco dal terreno che l’ancorava, si universalizza, affrancata dallo spazio, dai segni e dai gesti definiti, in cui era stata racchiusa. Con modo di pensare odierno, potremmo dire che si fa parola essenzialmente spirituale, si fa linguaggio puro e universalmente totalizzante. Come il popolo sotto la guida di Mosè abbandona la terra di Egitto, così la parola abbandona i suoi luoghi originari e si avvia nel deserto.

      Non sto sostenendo che proprio come ora detto siano andate le vicende storicamente parlando e non mancherà certo qualche ebraista che lo smentirebbe radicalmente, ma traccio solo un quadro plausibile che aiuti ad intendere la sacralità della parola ebraica a partire dal luogo nel quale l’ebraismo ha formato la sua identità più stabile e dove la visione sacrale del mondo è stata esistenzialmente onnicomprensiva.

      La parola sacra dell’ebraismo si avvia in maniera concreta nel suo esodo e come il cammino del popolo si dirige verso una terra promessa, così la parola si fa custode della promessa di raggiungere quella terra e la ribadisce in ogni circostanza dell’interminabile viaggio. Nel deserto, specchio dell’illimitato, ci si misura sempre più con le incertezze assolute, con l’imprevisto radicale, coi pericoli dell’immensità uniforme e desolata, dove si è costretti a vivere ai limiti della sopravvivenza. Nel deserto è proprio la sopravvivenza ad essere messa in gioco. Là nel deserto, sterminato ed uniforme, si può cadere preda della disperazione totale oppure tenacemente sperare, credere, continuare nonostante tutto sia contro. Il deserto, terra della fede, non offre vie di mezzo, non ha mezze misure: è un tutto in cui si gioca tutto (la vita) o si perde tutto (la morte). Nel deserto la parola può dire soltanto che ti salvi o che ti perdi e che la tua meta è più vicina o più lontana. Il deserto è il luogo totalizzante del provvisorio che non può farsi definitivo se non rendendo provvisoria ogni definitività e che se si fa definitivo può rendersi solo terra di transiti, transiti che promettono una terra più oltre, nella quale si deve credere, perché la vera meta nel deserto è la direzione e non l’arrivo. Nel viaggio la parola si tempra, perché strazia, conforta, incolpa e premia, annienta e vivifica, mostra tutta la pochezza e tutta la forza dell’essere. Si configura anche la parola-silenzio, parola dell’ascolto totale. Pensare di aver raggiunto il luogo definitivo è la morte e sarebbe anche la morte della parola; in una parola, l’essere arrivati coinciderebbe con la morte.

      Addentrandosi nel deserto, sfidando la sua potenza, si scopre il nulla e il tutto che si è, il senso e il non senso di sé e di tutto. Il senso è la solitudine profonda, è la solitudine dell’uno, la presenza unica di colui che non si vede e che solo può vincere quella solitudine, cioè l’immensamente unico e incommensurabile, ossia il vero solo, che può essere l’unico tutto. Rilke parlò dell’immensa solitudine di Dio, che proprio nella sua immensità annulla ogni solitudine. Questo terreno fa intuire che cosa possa essere la parola unica dell’Altissimo, parola sconfinata, che risuona nell’orecchio del disperato che non dispera, perché sa che soltanto la speranza in quella parola lo può salvare. Non c’è altro che lo possa aiutare, se non l’assolutamente altro. Per questo la parola ebraica è parola profetica, che nel visibile parla dell’invisibile e con l’invisibile ed è una parola carica di infinita speranza e infinita disperazione, che ha disagio delle vie di mezzo e addirittura le deride. L’incommensurabile immensità e l’uniformità sono l’unicità con cui si misura la parola rivelata, parola essenzialmente teotropica.

      Parola patonoetica - Il secondo fascio di radici della parola euroccidentale ha come ceppo basilare l’antica Grecia. Su questa terra si sviluppa la parola patonoetica, che si potrebbe anche dire psiconoetica. Un modo eterodosso per comprendere lo spirito che anima la parola greca, credo che si pensarla ponendosi sulla riva del mare. Ascoltare il ritmo delle onde, respirare intensamente l’aria salmastra e pronunciare a voce alta sensazioni, idee, ricordi, angosce, gioie. E’ un modo per cercare di esprimere il carico di energie naturali e di passionalità che si accumulano nell’animo. Pensiamo questo atto come se fosse un momento originario, da coniugare con quello di descrivere la fatica di coltivare una terra inaridita dagli strali solari o di costruire una città, cingendola di mura e di esaltare imprese compiute anche in battaglia e poi di trovare risposte al perché di quanto c’è e alle forze che ci guidano e che ci contrastano, ma anche di porre domande a ciò che non dà risposte o si nasconde nei miti insorgenti. Comunicare poi ad altri, discuterne, convincere. La parola si fa epica e poetica, si fa logica e dialogica, si fa retoricamente suadente, scava nell’essere e nel pensare, evoca ed ordina. E’ parola intensamente antropocentrica. In essa il pensiero si fa energia, cosicché le parole e le cose si inseguono, adattandosi, contrastandosi, armonizzando e confutando, sfidando l’incomprensione, la riluttanza dei sentimenti; il bisogno dei distinguo e del ricomporre, lo sforzo di poter dire quanto non nasce come parola ma abbisogni necessariamente della parola, forgiano la parola stessa, la rendono duttile e penetrante, allusiva e tenace, coriacea e permeabile, apodittica e dubitante, monolettica e dialettica, focale, sospettosa e raggirante, informativa e direttiva. Questo spettro variegato ci aiuta a cogliere il senso della radicale e multiforme “naturalità” della parola greca e la sua forza di esprimere quanto l’essere umano vede, sente ed immagina.

      E’ una parola tanto profondamente antropica che sembra non perdere nulla di quanto l’uomo può pensare o provare in sé. Si potrebbe dire con Bachtin che questa parola è il ponte di collegamento con tutto e tra tutti. La parola greca vuole rappresentare che cosa e in che modo riesca a pensare l’essere umano, come possa tradurre in parole le manifestazioni e le energie della natura e quanto la mente sa concepire di puramente intellegibile. Per questo la parola da semplice rhema si fa anche eruzione incontenibile della passione, si fa cioè epos evocativo, diventa narrazione, cioè mythos, diventa logos, ossia pensiero ragionato e costruzione mentale capace di cogliere la struttura intima delle cose. Insegue le cose e si fa docile alla potenza del nous.

      Non contraddicono quanto stiamo esponendo le tesi sostenute da Friedrich Creuzer, quando questi argomenta sulla parola epica, considerandola come una sorta di tradimento della sua originaria fonte sacrale. Analizzando in profondità la parola, Creuzer scorge nelle sue radici l’immagine, che egli definisce di natura simbolica, e che precisamente è un’immagine sacra. La sua posizione - che destò consistenti reazioni tra i filologi suoi contemporanei, per i quali risultava inaccettabile l’idea dell’origine sacra e sacerdotale tanto della parola quanto del mito, anziché quella della creazione poetica – non intacca minimamente, anche se fosse condivisa, l’eredità patonoetica che la parola greca ci ha tramandato. Le vedute di Creuzer, peraltro, sono di grande rilevanza per la definizione della natura simbolica della parola. Se la parola ebraica, entrando nelle cose si sospinge oltre la loro natura, la parola greca entra nella natura delle cose, la dissoda, ne fa emergere i significati e addirittura si fa essa stessa cosa. La levatura della cultura greca, tutto il suo immenso patrimonio di pensiero e di poesia, tutta la sua intelligenza e creatività filosofica hanno alla base la potenza umana della parola. Non consideriamo sacrale in questo nostro contesto la parola greca, perché nella sua peculiarità non si propone come ispirata o rivelata, né si mostra di stampo rituale, perché non ha un autore superordinato al mondo che mediante la parola entra nel mondo, o al quale essa prioritariamente si rivolge: essa è profondamente del mondo e dal mondo strappa il sapore, il respiro, la lotta, la gioia, il dolore, le controversie, che fanno parlare anche gli dèi.

      Se possiamo immaginare la parola ebraica strappata da un luogo sacro e trasportata nel viaggio terreno, possiamo anche dire che la parola greca è strappata alla natura e consegnata all’intelligenza e alla sensibilità dell’umanità. Per questo è anche lecito sostenere che, nel suo fondo, la nostra civiltà pensa e ragiona in greco o, metaforicamente, traducendo dal greco, come hanno dimostrato secoli di storia e come continuiamo a fare in diverse lingue. I greci ci hanno insegnato a pensare, ad analizzare, ad argomentare, a spiegare. E’ proprio la parola patonoetica dei greci, del resto, ad aver dato luogo anche alla parola filosofica.

      Con ardita approssimazione può essere decisamente orientativo pensare che la parola rivelata o, come più cautamente è sostenuto, la parola “ispirata” precede la verità, mentre la parola patonoetica insegue la verità. Nella sua versione ebraica la parola è intrinsecamente monoteistica, nella sua versione greca è intrinsecamente politeistica. La parola rivelata contiene dunque la verità e si pone essa stessa come verità, mentre la parola patonoetica cerca la verità per dirla o per non farla cadere nell’oblìo. La parola rivelata preesiste alle cose, la parola patonoetica non preesiste alle cose, ma è costruita dall’uomo e nasce dopo le cose nello sforzo di identificarle e di dirle, tanto le cose visibili quanto le invisibili. La parola patonoetica può parlare anche della divinità e con la divinità, ma primariamente deve prendere possesso, circoscrivere, qualificare, definire, esprimere il percepito e il sentito, deve rendersi ragione. Da qui il suo farsi parola della filosofia. Quando giunge ad essere “poietica”, cioè a fare le cose, in realtà ritiene di svelarle. Mentre la parola rivelata è profetica, ossia parla prima della cosa, la parola greca invece è svelante, parla dopo la cosa, cioè la cerca, la scopre, la fa accessibile e, dunque, la svela senza essere a sua volta rivelata. E’ parola che aspira ad essere aletica, per l’appunto svelatrice e liberatrice dalla cancellazione obliante del tempo. Quando si dice che Aristotele ebbe la pretesa di spiegare l’ordine del mondo secondo le regole della grammatica greca si fa certamente una battuta un po’ironica, ma si fa anche luce sulla potenza maieutica e al tempo stesso altamente identificatrice e discorsiva della parola greca. E’ vero che c’è anche la parola oracolare, ma non possiamo assumerla come caratterizzante della eredità greca che si è fatta costruttiva della cultura euroccidentale.

      Acculturazione - Il dominio fondante della parola, sia rivelata sia patonoetica, induce a misurarsi con la verità e ad affermare spazi ideali universalistici, ossia intenzionalmente dotati di validità per tutti. Posti i limiti umani, la tendenza rimane a misurarsi con realtà che mirano ad approssimarsi al vero, comunque questo possa essere inteso. L’acculturazione alle idee e la loro competizione sono un habitus; la cumulatività delle esperienze culturali e il vaglio del pensiero, fattosi esperto dalla consuetudine a misurarsi, come ispirazione e guida dei costumi, anche con tutte le potenzialità critiche che in se stesso comporta, sono energie di legittimazione delle scelte collettive, che hanno per protagonista la parola. E’ come se la forza di coesione e di qualificazione del modo di pensare e di realizzare gli ordinamenti formali e informali della coesistenza umana, di elaborarne e di trasmetterne i contenuti si sia costituita ad opera della parola. Parola con cui non solo si analizzano le idee e ci si esprime, ma anche si dettano regole e norme istituzionali. Vi contribuisce anche la parola sacrale, perché questa ha immesso nella cultura tanto il principio vincolante di ciò che è formalmente o solennemente formulato o dichiarato (lo si scorge abitualmente negli impegni assunti con solennità, nei testi legislativi, nelle enunciazioni costitutive e istituzionali, nelle manifestazioni autoritative anche della scienza) quanto le modalità di guardare alla trascendenza o quelle di attestare idealità. Il linguaggio secolarizzato riflette matrici sacrali quando si prova a proclamare verità superiori, sicurezze dogmatiche stabilite dalla ragione, dall’esperienza, da situazioni di fatto inconfutabili, e perfino da sollecitazioni edonistiche e da obbiettivi ritenuti di valore indiscusso. Del resto, è ancora nella parola in senso sacrale che, in ultima istanza, le interpretazioni e i pronunciamenti espressi dalle concezioni religiose vigenti cercano la loro legittimazione.

      Parola teologica cristiana - A questo punto dobbiamo prestare un’attenzione particolare al cristianesimo, più precisamente alla parola come è stata assunta dalla cultura cristiana, che è la cultura fondamentale sulla quale si è costruita la moderna civiltà euroccidentale e che alla parola ha dato uno straordinario valore fondativo, naturalmente derivandolo in primo luogo dall’eredità ebraica.

      Per quanto stiamo dicendo, la parola propagata dal cristianesimo spicca per la fusione in se stessa della parola rivelata (continuità dell’ebraismo) e della parola patonoetica (continuità greca). La parola cristiana si deve infatti considerare parola a doppio titolo, cioè contemporaneamente rivelata e patonoetica. La tradizione cristiana si fonda, prima di tutto, su testi di fonte ebraica, ma scritti in lingua greca (tali sono infatti i Vangeli e l’intero Nuovo Testamento, ma anche la cosiddetta Bibbia dei settanta), e, in secondo luogo, la sua dottrina e la sua teologia sono decisamente concepite e concettualizzate interpretando la Bibbia mediante un linguaggio speculativo squisitamente caratterizzato in senso greco. Nella parola cristiana, dunque, non si possono assolutamente scindere l’aspetto rivelato e l’aspetto patonoetico. Non è questo il luogo per avanzare speculazioni teologiche; basta dire che nella stessa figura di Cristo, considerato Verbo incarnato, il suggerimento è che i due aspetti appaiono indissolubilmente congiunti. Per comprendere le dimensioni epocali dell’affermazione dottrinale del cristianesimo tra il III e il IV secolo si dovrebbe approfondire l’atteggiamento dei più dotti e degli apologisti, sul terreno latino e su quello greco, nelle loro prese di posizione nei confronti del paganesimo. Mentre sul terreno latino da un Tertulliano a un Lattanzio, da un Cipriano a un Ambrogio, per arrivare ad Agostino, si respira l’aria dell’educazione romana, nell’area orientale, di tradizione greca, fiorivano grandi figure logotetiche, come un Origene o un Clemente Alessandrino o i Cappadoci, per arrivare a un Crisostomo o a uno Pseudo Dionigi, aperte a un misticismo nutrito di atmosfere neoplatoniche. Sono questi i Padri greci che, unitamente all’eredità antico-classica e alle scuole plotiniane, ricorrono al potentissimo apparato concettuale della tradizione platonica e neoplatonica come strumento linguistico per accedere ai contenuti rivelati, a sviluppare articolati linguaggi ermeneutici, che diventeranno determinanti nella definizione del patrimonio intellettuale dell’intero occidente.

      L’area occidentale di cultura latina si misura con la tradizione istituzionale dell’impero romano e, sotto il profilo intellettuale, si affida a due grandi branche della formazione civile, che hanno per protagonista la parola: il diritto, sfociante nel corpo delle istituzioni civili, e lo studio della retorica, sorretto da un’educazione stoico-epicurea, che stabiliscono le basi fondamentali di quello che possiamo considerare l’uomo colto di allora. Non deve essere trascurato che l’apologeta cristiano ha come suo vera avversaria proprio la retorica, ossia quello che è il regno esclusivo della parola. Se il diritto reggeva le forme e i mezzi per regolare gli assetti pratici e istituzionali della convivenza comune, la retorica era la plasmatrice delle intelligenze, raffinava gli ingegni, trasmetteva sensibilità estetiche, esempi comportamentali, caratterizzava i costumi, esprimeva le idee di fondo, le forme etiche e celebrative, il gusto per la letteratura e per l’argomentare etico e filosofico. Per un cristiano il patrimonio anche semantico della retorica e le modalità di trattarlo non parevano adattarsi a un principio di verità rivelata, né sottoporsi a messaggi salvifici ed escatologici, quali erano quelli predicati per distogliere i cuori e le menti dalla città terrena e dai suoi dèi, ossia dalle idealizzazioni del mondo. E la parola? Poteva per la sensibilità e le convinzioni dei maestri di retorica presentarsi come parola rivelata e incarnata, come quella predicata dai cristiani? Per un retore la parola può predicare, ma a rigore non può essere predicata, se non nel suo potenziale solo semantico. Come sostenere che Verbum caro factum est, come dice il Vangelo di Giovanni?

      Secondo l’insegnamento dei greci, la parola del pagano non poteva che essere aletica nel senso patonoetico e non già investita di quell’ispirazione divina che la tradizione ebraica aveva trasfuso nel cristianesimo. Il dotto cristiano non poteva, da parte sua, che convertire la parola patonoetica, aprendola ad un ordine ispirato, conformemente alla natura sacrale ebraica, che è all’origine della sua fede, e per di più rivivendola attraverso il messaggio di una persona umano-divina, Cristo. E’ ovvio che la parola del cristiano non poteva essere espressa coi caratteri che assumeva nell’insegnamento della retorica, bensì con quelli dell’annuncio salvifico e della predicazione del messaggio di salvezza. La polemica cristiana contro il politeismo può essere correttamente intesa altresì come una polemica contro la parola multipla e politeistica, condotta in nome di una parola unica e monoteistica. La molteplicità pagana si poteva saldare sul corpo istituzionale terreno e naturale, organizzato e fondato sui suoi poteri tradizionali, invece l’unicità della divinità cristiana su un terreno celeste, cioè sull’ultraterreno e soprannaturale.

      Sarà una lenta diffusione del cristianesimo, disarticolata e frammentata, ma costante pur nella sua eterogeneità, a portare ad una graduale e reciproca compenetrazione dell’istituzionalismo romano (e in oriente bizantino) con la parola cristiana, dando vita ad una comunità ecclesiale. Il corpo politico si salderà col corpo ecclesiastico in un complesso rapporto di unione e distinzione e la parola elevatrice e acculturante della tradizionale retorica classica sarà sostituita dalla parola dottrinale e da quella predicante o da una parola, con l’apparire della scolastica medievale, consegnata alle inferenze, induzioni e deduzioni della logica, che sono diretto retaggio dell’antica parola greca noeticamente aletica. Ma una vera e propria risorgenza della parola patonoetica anche nelle sue dimensioni patiche ed estetiche si avrà con l’Umanesimo e il Rinascimento, dai quali prenderà l’avvio la parola desacralizzata della modernità. Gli esempi e le varianti sono sterminati. La dottrina della doppia verità, divina ed umana, derivata da matrici arabe, distinguerà nettamente il campo della parola rivelata da quello della parola patonoetica, segnandone la reciproca indipendenza.

      Qui inseriamo un velocissimo accenno soltanto a una peculiarità di Agostino e alla singolarità di Lutero.

      Agostino nasce come retore e conserva alla parola le sue valenze retoriche anche nelle sue opere teologiche. Cerca infatti le parole convincenti, si chiede che cosa debba dire e con quali parole, anche in se stesso e a se stesso, giungendo perfino a chiedersi quali mai parole avrebbe pronunciato il Signore per creare il mondo. La sua parola è ermeneutica, maieutica, allegorica e poietica insieme, oltre che semiotica. Signum signorum Dei come egli la definisce, essa è un segno che denota e che connota; come signum dà evidenza alle cose, che a loro volta sono signa della potenza, della volontà e dell’amore di Dio. La peculiarità di Agostino sta nell’intensità con la quale egli accosta contemporaneamente la parola patonoetica, col suo grande potenziale retorico riversato sull’oggetto di fede, e la parola rivelata, che deve illuminare la parola patonoetica.

      Di Lutero si ricorda che celebrando la sua prima messa fosse svenuto, sconvolto dall’idea che le parole pronunciate da un semplice uomo, quale egli sentiva di essere, dovessero produrre un così grande portento, come quello di trasformare il pane e il vino in corpo e sangue di Cristo. Sappiamo quanto la parola fosse sempre rimasta al centro della sua esistenza, e in particolare la parola biblica. La traduzione della Bibbia in tedesco non fu l’unico evento con cui ne esaltò il ruolo, ma anche la sua disputa con Erasmo o il suo modo di intendere la preghiera sono attestazioni coriacee della priorità della parola. La sola Scrittura, per lui, è il mezzo di contatto tra l’uomo e Dio e la salvezza dipende esclusivamente dalla grazia divina, senza che ne intervenga il merito umano. Per Lutero ci si salva per fede e per misericordia divina, non per le opere che si compiono; ma di quale fede si tratta? Della fede nella parola di Dio, quindi, secondo il linguaggio che abbiamo adottato, di fede nella parola sacrale.

      Con Lutero si manifesta, sul piano teologico, un evidente riaccostamento accentuato alla posizione ebraica e un certa presa di distanza dalla parola patonoetica, ma non si può non notare una rilevante attenuazione della sacralità. La parola di Dio non è così immutabile dal non poter essere tradotta - così come tradotta, del resto, ci è stata tramandata - essendo lecito renderla nel linguaggio praticato da un singolo popolo. Il punto essenziale è che la parola rivelata può rivivere in traduzione che, a sua volta, non è ispirata, ma trattata semplicemente come lingua di uso corrente. La singolarità di Lutero può essere scorta in una certa esaltazione della parola, che ne isola la sacralità all’interno della Scrittura e al tempo stesso nella sua disincarnazione, anche per la deritualizzazione alla quale è stata da lui sottoposta con la rimozione della sacramentalità liturgica. Alla parola, in ultima istanza, è riservata la funzione di potenziare la coscienza personale nell’azione. La conformità della parola all’azione, in tal modo, non è più rituale, ma affidata alla coscienza e alla volontà di chi agisce con gli effetti voluti dalla volontà di Dio. E’ l’elemento volontaristico e la sua conformità alla coscienza a dare sostanza alla parola vivente e vissuta. Ma la parola è volontà, la volontà è per l’azione, la parola è per l’azione o, anche, è azione.

      Parola innaturata - Sarebbe puerile inscrivere Lutero all’interno del modello originario pragmatico-naturalistico che caratterizza l’antica civiltà germanica; ma sarebbe anche lacunoso, anzi inesatto, immaginare il suo pensiero cercando di comprenderlo alla sola luce di una visione giudaico-cristiana, indottrinatasi con la parola patonoetica secondo le caratteristiche che abbiamo brevemente indicate.

      Per dare risalto con effetti contrastivi al ruolo della parola, abbiamo indicato più sopra la peculiarità dell’eredità di quella civiltà nordica non nella parola, ma nell’azione. Popolazioni non costruttrici di città, prive di reali istituzioni, articolate in una varietà di tribù e di stirpi di tradizione nomadica e guerriera, cresciute in ambienti dominati da boschi selvatici, organizzate in piccoli gruppi sparsi, alleantisi per stirpi o per difesa, vivevano le loro relazioni fondamentali con cose, con animali e con propri simili tramite mezzi naturalistici e pratiche magiche e federative. Sotto il profilo specifico della parola, la loro, che potrebbe considerarsi di natura sussidiaria, è definibile come parola innaturata (“in-”, nel senso specifico di “dentro”). In un mondo modellato sui boschi selvatici, cioè un mondo dagli infiniti particolari, ageometrico e irregolare sotto tutti i profili, animato da “spiriti” e “genî”, relativamente imprevedibile nelle sue potenzialità e naturalisticamente privo di trascendenza, la costitutività originaria dell’azione imprime alla parola una particolare caratterizzazione pragmatica e naturalistica. Innanzitutto è rilevante nelle popolazioni del nord di allora l’assenza della scrittura, il cui uso è di adozione molto tarda e d’importazione in lingua non propria. La parola si forgia perciò sulla circostanza, come strumento vivo del dire, ora mimetico ora identitario-differenziante, e quindi tipicamente innaturato nella cosa e nella situazione, in maniera dinamica, occasionata ed instabile. Il mondo del bosco, modello anche simbolico di quelle popolazioni, non richiede alla parola una speciale funzione di relazione e di organizzazione, ma piuttosto di spontanea necessità circostanziata e di relativa provvisorietà. Vi rientra anche il suo uso magico, talismanico e performativo, strettamente legato alla cosa e alle nominazioni di occorrenza, nonché quello ingenuamente ludico. L’elaborazione veritativa ed esplicativa delle cose cede il passo all’espressività, alla capacità di fermare l’attimo e di circoscrivere la cose stesse, dove l’elemento fissatore dell’uso immediato predomina su quello discorsivo, astratto e differito. Un problema di grandissima portata si profila, allorché introduciamo, come abbiamo appena fatto, il principio dell’azione e cerchiamo di rapportarlo alla cultura cristiana. Come espressione di una cultura della parola il cristianesimo (è completamente errato e fuorviante, ricordiamo anche qui, parlare del cristianesimo come “religione del libro”, concetto che si potrebbe forse appropriare solo alle religioni semitiche), come ha regolato la propria teologia nei confronti dell’azione? I popoli dell’azione sono, oltretutto, quelli che hanno gli hanno dato un enorme numero di fedeli. A grandi linee dovremmo constatare che l’impostazione generale del pensiero cristiano, almeno nelle sue principali correnti di espansione, si sia tenuto complessivamente alquanto discosto dal far propria la parola innaturata, esaurendosi in quelle sacrale e patoneotica. Ciò sembra essere accaduto nella storia della cultura occidentale, almeno nei contesti dottrinali più decisivi. Ma, se effettivamente così stanno le cose, questo atteggiamento potrebbe aver costituito una trascuranza non del tutto estranea anche nelle rotture intervenute col protestantesimo. Se la parola cristiana interiorizza il principio dell’azione, quando si arresta al semplice teologizzare si farebbe inconsapevolmente politeistica, quando solo prega e liturgizza rimarrebbe monoteistica. E’ un argomento tutt’altro che semplice da trattare, che merita senz’altro di essere studiato e su cui non è qui il caso di aggiungere commenti. Ci basti ricordare la famosa scena del primo atto del Faust, in cui Goethe rappresenta il vecchio protagonista intento a tradurre l’inizio del Vangelo di Giovanni (sovrapposizione poetica di San Gerolamo e di Lutero, traduttori della Bibbia) collega con geniale intuizione anche speculativa il Logos, la parola, das Wort, alla azione (die Tat). Ma “azione” è un significato che può essere conferito anche a davar, termine ebraico designante la parola.

      In ogni caso può valere anche per la religione e la teologia il richiamo alle tre terre tipologiche della civiltà occidentale: il deserto, il bosco, la città (il mare sarebbe la quarta, ma non possiamo considerarlo tipologico di una speciale eredità della parola). Il deserto è culla del monoteismo e delle visioni di totalità; il bosco è culla del pluralismo naturalistico e animistico dei celti e dei germani; la città è culla delle religioni istituzionalizzate. Perciò il deserto, in maniera particolare ospita l’idea dell’unità divina e della molteplicità dell’essere e nell’essere umano; il bosco ospita l’idea rigenerativa di una molteplicità di spiriti e quella di ricostituzione di unità nell’interiorità della autocoscienza umana; la città ospita la tendenza ad uniformare gli animi nel riconoscimento di prescrizioni consuetudinarie e di autorità istituzionali. Così è delle attitudini religiose delle rispettive popolazioni, all’intendimento delle quali concorrono anche i territori simbolici e la speciale geoteologia simbolica che essi rappresentano.

      Problematica odierna e la parola-etichetta - E’ facile rendersi conto che al giorno d’oggi la parola non è curata come un tempo, è bistrattata, gettata là in maniera approssimativa, relegata in secondo piano o usata in profusioni lallicahe. Ciò accade nonostante sia coltivata la parola specialistica, come esigenza delle diversificazioni dei linguaggi tecnici e imposta la parola formalizzata del burogiuridismo. Non si cura più né l’ampliamento né la precisione e il raffinamento del lessico, nelle scuole si giunge a non far più scrivere temi, che è lo spazio per eccellenza dello scolaro per esercitare la parola in tutta la gamma delle sue potenzialità. Anche l’ideologia della comunicazione contribuisce alla sottovalutazione della parola. Non si legge più come e con la concentrazione di un tempo, non si medita sulla scrittura, non si scrivono più vere lettere, si affida molto meno alla parola il compito di trasmettere conoscenza. Altri mezzi sostituiscono la parola. La gran parte delle conoscenze sono state affidate per secoli alla parola scritta. La biblioteca era il serbatoio e il laboratorio del sapere. Lo scriptorium dei monasteri medievali era diventato il tempio e il deposito della scienza. Questa fortuna della parola appare ora finita e la biblioteca, coi suoi preziosi tesori, è diventata una specie di archivio cimiteriale di documenti e curiosità del passato, ed è spesso deserta. La parola rimane forse un modello, in parte ancora rispettato dalla linguistica e dalla semiotica, ma non è più considerata la maestra della conoscenza.

      Bisogna convenire che da quando si è incominciato a sostenere che si vive in una società della comunicazione, dove comunicare significa (nel caso migliore) solo trasmettere informazioni, la parola è stata declassata. Si è arrivati al punto di sostenere che il sapere stesso sia semplicemente “comunicazione”. L’effetto provocato è il completo predominio del mezzo tecnico sui contenuti che trasmette. L’esito è sotto l’occhio di ciascuno: il mezzo sostituisce il fine, la comunicazione sostituisce la conoscenza, la pubblicità e la notorietà sostituiscono la competenza. I criteri di argomentazione e di giudizio, che derivano dalle capacità discretive della parola, in tal modo si eclissano, e la parola si riduce ad un fattore quasi complementare, e non sempre il più importante, della comunicazione.

      Questa evoluzione ci indurrebbe a pensare a una storia dei fondamenti totali, articolata su diverse generazioni di credenze. Dapprima l’umanità era credente negli dèi o comunque in divinità o potenze cosmiche, che reggevano le sorti del mondo; poi pose la sua credenza nella natura; poi ancora nell’uomo come tale, cioè in se stessa; ne è nata una specie di fede nella scienza, che ha finito per trasferirsi in quella nella tecnologia. La salvezza è stata, dunque, affidata prima agli dèi, poi alla natura, poi all’uomo, poi alla scienza e, infine, si sta credendo che la salvezza provenga solo dalla tecnologia; per questo un grande filosofo del novecento, ha detto che “ora solo un dio ci può salvare!” (Heidegger). Se fosse proprio così, il ciclo si chiude o si riapre. Ma non è questo il tema che stiamo prendendo in considerazione.

      Forse dobbiamo prestare attenzione ad un altro tipo di possibile ciclicità, che vede la crisi della parola nell’affermazione dalle tecniche della digitalizzazione. La riduzione della parola a strumento informativo-comunicativo comporta un suo sostanziale accantonamento, per fare posto a un mezzo più immediato, più universalizzabile ed universalizzante, ottenuto dallo sviluppo dell’informatica; chiamiamolo un mezzo iconotattile. Esso consente un “comunicare” attraverso ciò che si vede e si tocca, tramite adeguate e ormai diffusissime strumentazioni. Probabilmente l’intensità dell’uso iconotattile e le sue prossime evoluzioni tecnologiche potrebbe provocare altresì una regressione delle effettive capacità ricettive, di ascolto e di elaborazione mentale, che sono invece fortemente sollecitate dalla parola. L’ascolto e la ricezione di senso richiesti dalla parola, ovviamente, non concernono soltanto l’aspetto fonico e informativo, ma comportano anche quello interiore, radicalmente mentale e, per così dire, del cuore. La civiltà primitiva era forse fondata sulla gestualità e sulla ritualità ed ora sembra che si stia ritornando ad una civiltà della gestualità. Ecco l’aspetto ciclico di cui dicevamo. L’avvento delle operazioni digitali, sostituendo l’attività di un reale pensiero discorsivo e affidando l’elaborazione mentale al particolare modello comunicativo che abbiamo definito iconotattile, sembra fare ritorno a uno strumento tipicamente gestuale. Ma, a differenza della gestualità arcaica, ha natura assolutamente priva di significati rituali ed è molto esposta ad indulgere ad automatismi; ciò ci suggerisce appunto l’idea di osservare l’acculturazione gestuale in corso come manifestazione assolutamente irrituale. Se realmente la comunicazione fosse incominciata col gesto, il ritorno del gesto in maniera complessa, dopo il lungo intervallo del dominio della parola, farebbe pensare alla fine della comunicazione, resa inutile per esseri avviati a rendersi programmabili ed eterodiretti.

      A ben vedere, è allineato su questa medesima logica il monolinguismo forzato (alludo particolarmente all’imposizione in atto della lingua inglese in nome di una malintesa internazionalizzazione): esso è coerente con la svalutazione della parola, in quanto la riduce a semplice veicolo di comodo e non per realmente esprimere e comunicare, ma solo per etichettare esteriormente cose e relazioni; ecco la parola-etichetta. Il plurilinguismo è invece occasione di grande apertura mentale, avendo ogni lingua un proprio ingenium, un proprio patrimonio di conoscenze e di esperienze, un proprio modo di sentire, interpretare ed elaborare il pensiero, che costituiscono proprietà dotate di proprie accentuazioni sostanzialmente intraducibili. Ma vi è anche l’universo della traduzione, che Walter Benjamin definì la vera lingua universale. La traduzione intensifica la comprensione, cioè potenzia l’intelligenza delle cose e della vita, interiore ed esteriore. La traduzione, infatti, deve necessariamente misurarsi e assolutamente senza automatismi con le analogie, le similitudini e dissimilitudini, le esperienze costumali, attivando le energie contrastive dell’intelligenza, intuitive e ragionate.

      Le veloci considerazioni qui concentrate, senza analisi alcuna e senza specifiche argomentazioni, dovrebbero essere sufficienti per mettere in evidenza la portata epocale del problema della parola, invitando ad affrontarlo nelle dovute forme interdisciplinari in un confronto a più voci e a più competenze, che coinvolga i suoi rapporti con l’informatica, col mondo animale, coi linguaggi specialistici e formali, con le neuroscienze, con le esigenze giuridiche, con la comunicazione sociale, con l’esperienza dei linguisti e dei traduttori, col pensiero filosofico, con la creatività artistica, con la formazione personale e con ogni altra manifestazione che se ne debba avvalere. Gli studi di simbolica in corso possono offrire un’insostituibile campo di effettiva convergenza delle diversità metodologiche.

(Giulio M. Chiodi)