GIULIO MARIA CHIODI

 

 

Sul diritto europeo: Nota di sImbolica giuridica

in Sviluppo dei diritti dell'uomo e protezione giuridica  (Napoli, 2003)

 

 

SOMMARIO:  1. Due puntualizzazioni - 2. I due principi: l'androginismo normativo, -

3. Due originarie antropologie giuridiche. "Civitas" e "socialitas". - 4. Conclusione.

 

 

1. Due puntualizzazioni

 

Nel modo di pensare-corrente il diritto non discende da una rivelazione divina, né è concepito come un prodotto proveniente dalla natura. Ed altrettanto dicasi delle Costituzioni. Diritto e costituzioni sono invece un prodotto di cultura. Ciò motiva tutte le discussioni e le contese che insorgono in merito. La simbolica giuridica è in grado, meglio di altre metodologie, di predisporre campi di osservazione e criteri di analisi che consentano di prendere in considerazione le componenti più profonde dei fenomeni giuridici ed istituzionali e di pervenire anche alle loro strutture più elementari. L'analisi simbolica è perciò indispensabile tanto per la comprensione teorica quanto per l'effettività pratica, tanto più che le dimensioni simboliche come tali non fanno distinzione tra aspetti teorici ed aspetti pratici di un fenomeno. Queste precisazioni giustificano l'intervento del punto di vista simbolico anche nel dibattito in corso sugli assetti giuridici presenti e futuri dell”Europa, essendo l'unico modo di osservare la realtà con attenzione anche a risvolti non razionalmente strutturati e d'importanza basilare, altrimenti irreperibili.

Qui, in tale ottica, mi limiterò ad avanzare brevemente solo due puntualizzazioni. La prima ha valore universale perché concerne una caratteristica preliminare, comune a qualsiasi tipo, ordine e grado di normazione attinente la vita sociale; la seconda si riferisce a una caratteristica del tipo di normatività giuridica, che riguarda in modo specifico la tradizione europea. Entrambe le puntualizzazioni mettono in luce proprietà costitutive dell'antropologia giuridica; del resto la simbolica è assolutamente coessenziata all'antropologia. «Vita humana symbolica est; qui hoc non intendit non est homo» [1].

 

 

2. I due principi vitali: l'androginismo normativo

 

La prima puntualizzazione, che investe una proprietà generale di ogni realtà giuridica, si riferisce ad elementi vitali e quindi riguarda ciò che assicura il carattere vitale del diritto. Se il diritto appartiene - come deve appartenere - ai fenomeni umani, appartiene altresì ai fenomeni vitali. Se un ordinamento giuridico perciò, o una mera prassi giuridica, così come anche una precettistica consuetudinaria e perfino una singola norma giuridica devono considerarsi parte integrante ed organica della vita associata, non possono sottrarsi al godimento di una proprietà riscontrabile ed agente in tutti gli organismi vitali. È una proprietà biologicamente strutturata nel senso stretto del termine, presente in ogni essere vivente, così come in ogni genere di organizzazione sociale: ogni organismo vitale contiene in sé due principi opposti e complementari che devono trovare un proprio rispettivo e compenetrato equilibrio; si è consueti definire quei principi rispettivamente come principio maschile e principio femminile. Cosi come avviene nell'individuo biologico, altrettanto si verifica nell'organismo plurimo se preso nella sua unità, sia esso una coppia di individui piuttosto che un gruppo, indipendentemente dal numero dei suoi componenti. Intendo dire che il buon equilibrio interno di un'entità vitale, sia che si tratti di un individuo biologicamente inteso sia di un insieme (affettivo, di amicizia, di una collettività organizzata e istituzionalmente strutturata, di un'associazione, di un popolo, di una nazione) comporta in sé la realizzazione di un buon equilibrio tra quei due principi. Questi, dunque, sono sempre compresenti nelle loro relative accentuazioni, cosi in un singolo individuo come in ogni aggregato che dia esistenza ad un essere vitale composito.

I due principî, maschile e femminile, sono simili a due modalità di essere, e non sono già due distinte dimensioni incomunicabili e alternative che si appropriano ad un essere piuttosto che a un altro, come si configura in un individuo di sesso maschile e in un individuo di sesso femminile. I due principî, nell'organismo unitario, coesistono e si connettono tra loro, potendosi intrecciare e fondere in unità. È la combinazione di entrambi ad essere essenziale per la vita e, ciò che qui più ci interessa, per la vitalità. Quando in un soggetto, individuale o plurimo, prevale uno dei due principî, vige in esso una sorta di incompletezza che lo sospinge verso la ricerca, per compensazione, di un'integrazione col principio opposto. E così accade anche nelle compagini politico-sociali, quando in esse ecceda uno dei due principi sull'altro. Un corpo sociale, quindi, che voglia essere sano deve possedere e saper equilibrare in se stesso quei due principî. Soprattutto un'istituzione, dalla famiglia a un'associazione privata, a un ente pubblico, a uno stato, potrà misurare la propria consistenza interna, la propria dinamica, le proprie capacità di relazione e di continuità, in una parola la propria vitalità, in base ai complessi equilibri che saprà dare ai suoi aspetti rispettivamente maschile e femminile. Si tratta, sostanzialmente, di una questione di giusto dosaggio, ispirandosi saggiamente al modello dell'androgino.

Definiamo in sintesi i due principî vitali. Il principio maschile ha natura performativa, è plasmatore, imprime forma, definisce, orienta, assegna una direzione alle cose, è ordinatore, è energia convessa che disciplina. Il principio femminile rappresenta, invece, la materia fluida, la dimensione alimentatrice ed informe, costituisce la fonte indeterminata della vitalità ed è depositario della continuità e della ricettività, è energia concava, che contiene la sostanza primaria delle cose.

Accenniamo ad un'applicazione dei due principî in merito ad un argomento di grande rilievo per gli assetti istituzionali che ci si sta provando di conferire all'Europa.

È sul tavolo delle discussioni la predisposizione di una costituzione per la nascente o neonata Europa. Qualunque decisione venga presa in proposito, non si dovrebbe affatto ignorare - come invece abitualmente fanno i politici e i giuristi - la struttura simbolica che abbiamo ora richiamata. Molti dei difetti pratici di cui soffrono le costituzioni, così come le questioni sollevate da quella che è in uso definire costituzione materiale, risalgono in larga misura agli squilibrati rapporti tra i due principî vitali stabiliti dalle loro norme.

Si deve tenere presente, innanzitutto, che una costituzione nei confronti della società svolge un ruolo di tipo maschile. La costituzione dà forma e direttive agli ordini generali, stabilisce mediante la sua normativa gli assetti degli organi fondamentali di un sistema, ne ispira la vita istituzionale, prospetta i valori, i caratteri e le finalità che si devono perseguire; essa assomma in sé i criteri ordinatori e direttivi dell'intero universo sociale nel quale deve trovare applicazione. La società, a sua volta, nei confronti della costituzione svolge un ruolo ricettivo, di tipo femminile. La società, di fronte alla costituzione che la regola, costituisce l'elemento fluido, alimentatore, informe, che deve trovare nella struttura costituzionale le sue direttive e i suoi ordini. La costituzione deve saper dar forma alla società, appunto perché agisce nei suoi riguardi come principio maschile; la società deve dare materia ed alimento alla costituzione e da questa trarre le debite regole conformatrici, perché rappresenta il lato femminile del sistema.

Per evitare fraintendimenti, preciso che qui ci limitiamo a porre solo le questioni di principio, e parlando di costituzione non ci poniamo domande sull'opportunità o meno che vi debba essere una costituzione scritta e tanto meno entriamo nel merito di singoli modelli costituzionali o della differenza tra costituzione ideologicamente concepita e costituzione come indispensabile struttura di un organismo politico-giuridico, bene espresso dal concetto tedesco di Verfassung. Diciamo solo in generale che una costituzione che non esprimesse il suo ruolo maschile nei confronti della società, fallirebbe o sarebbe praticamente inesistente.

Ma la costituzione, naturalmente, deve essere concepita in un giusto equilibrio con la società alla quale si rivolge. I principî maschile e femminile devono essere tra loro in equilibrata armonia: ciò significa che nessuno dei due deve prevaricare sull'altro, e quindi nessuno dei due deve risultare carente rispetto all'altro, altrimenti il complesso del sistema istituzionale si carica di contraddizioni, disfunzioni e potenzialità di dissesti. L'eccesso di maschile comporta l'autoritarismo, l'eccesso di femminile il disordine e l'anarchia. Il giusto dosaggio evidentemente non può essere stabilito astrattamente, ma dipenderà dalle caratteristiche del sistema istituzionale singolo (che si compone della società e dei suoi vari ordinamenti).

La portata di una norma costituzionale (come del resto di qualsiasi altra norma giuridica o di legge) va commisurata alla capacità di saper individuare il grado di imperatività necessario al caso (lato maschile) e di ricettività dell'esigenza sociale (lato femminile) che la sua formulazione deve possedere. Potremo così avere - sempre relativamente alla loro materia - norme troppo maschili, cioè troppo autoritarie o troppo interventiste rispetto all'oggetto, e norme troppo femminili, cioè troppo permissive e troppo poco incisive; altrettanto si deve dire di una costituzione presa nel suo complesso, che può presentarsi o troppo maschile o troppo femminile.

Facciamo un esempio storico di grande rilevanza esplicativa: la cosiddetta, famosa e studiatissima, Costituzione di Weimar. Questa costituzione è stata universalmente considerata,`e lo è ancor oggi da parte di molti giuristi, un vero e proprio modello per l'intelligenza giuridica del suo testo, in virtù dell'eccezionale competenza dei suoi ispiratori ed estensori; dell'ampiezza di vedute politico-istituzionali, dell'accurata individuazione della distribuzione dei poteri, della sensibilità sociale di cui è permeata e del profondo sentimento democratico che ne anima il dettato. Come tutti sanno fu la costituzione che permise al regime nazionalsocialista di Adolf` Hitler di portarsi legalmente al potere. Non sarebbe potuto esserci esito più remoto dalle aspettative dei costituenti. Ma più che la procedura legalistica che portò all'avvento di un regime totalitario è significativa l'esigenza popolare da quest'ultimo rappresentata.

Uno studioso di simbolica politica e giuridica si rende conto facilmente che un consistente limite di quella costituzione è di essere stata concepita in termini eccessivamente femminili per la società tedesca di quegli anni, ossia di essere stata formulata secondo strutture istituzionali ed autoritative troppo ricettive della fluidità sociale, troppo assecondanti le inquiete e disordinate istanze di quella società, conservando o addirittura reiterando le carenze del versante maschile che questa stessa denunciava. Si è favorita in tal modo l'indeterminatezza delle direttive del sistema. All'epoca mostrò di avvedersene Carl Schmitt, che osservò come in quella costituzione non si riusciva a ben capire chi alla fin fine avrebbe comandato. Al bisogno di riequilibrio ha dato poi risposta la società stessa: all'eccesso di femminilità del sistema ha reagito con la richiesta di un eccesso di maschilità, che ha trovato la sua personificazione nel regime nazionalsocialista. Esattamente, da un eccesso all'altro. Si potrà discutere sulle complesse ed articolate motivazioni storiche del passaggio dall'uno all'altro regime, e la simbolica ne sa individuare non poche (a partire dalla rimozione di simboli di appartenenza collettiva da parte delle nuove istituzioni repubblicane); rimane tuttavia in evidenza il suddetto fenomeno di squilibrio tra i due principi vitali. La Costituzione della Repubblica di Weimar, non assolvendo pienamente al ruolo maschile che le spettava, ha messo l'intera struttura statuale in balìa della forza più marcatamente autoritaria che è riuscita ad imporsi negli animi e nella società.

L'esempio della repubblica di Weimar è certamente uno dei più eloquenti e può fare scuola per ogni tipo di costituzione. Si deve tenere presente, comunque, la relatività del rapporto maschile-femminile al suo oggetto di riferimento. Dire che la costituzione esercita una funzione maschile nei confronti della società ha innanzitutto come soggetto di riferimento il sistema istituzionale stato-società, ed è relativo solo a questo oggetto unitariamente considerato. Ma, di contro, se l'oggetto fosse la costituzione presa di per se stessa, a sua volta essa deve saper contemperare al suo interno i due principî. Ciò vuol dire che le sue norme necessariamente devono presentare di volta in volta aspetti autoritativi e aspetti ricettivi, ossia occorrono norme concave (femminili) e norme convesse (maschili) in giusto equilibrio rispetto alle funzioni che devono svolgere; non solo, ma ogni norma a sua volta, presa di per sé, deve strutturarsi componendo in se medesima e in giusta misura rispetto ai suoi obbiettivi i due principi vitali, maschile e femminile. Si consideri bene, sempre nella medesima ottica, il profilo della adeguazione di una costituzione al contesto sociale a cui si rivolge. L'esempio portato potrebbe indurre in un errore. La debolezza della costituzione weimariana, infatti, è stata da noi ravvisata nella sua eccessiva aderenza alla fluidità sociale. Ciò non significa affatto che una costituzione non debba aderire alle istanze e alle caratteristiche della società sulla quale erige la sua normativa. Tutt'altro: la costituzione, come è ovvio, deve necessariamente essere il più possibile aderente alle istanze, alle caratteristiche e alle dinamiche della società alla quale si rivolge; ma proprio per questo motivo il costituente deve rendersi conto delle singole peculiarità interne al contesto cui si rivolge e tra queste soprattutto della dominanza in questo dell'uno piuttosto che dell'altro principio, per compensarne in maniera calibrata l'eventuale esuberanza. Il connubio maschile-femminile non può essere forzato. Evitato ogni ideologismo, idealità programmatiche o assunto astratto, deve saper individuare il grado di reciproca compensazione che all'interno del sistema stabiliscono i due principi vitali. Se una società, presa nel suo complesso presenta molti fattori di dispersione, di conflittualità, di depressione, di disordine, di frammentazione o disgregazione e così via, essa, presa nel suo complesso, esprimerà caratteristiche femminili che richiederanno riequilibri e compensazioni giuridico-istituzionali più maschilmente caratterizzati, cioè dotate di capacità di intervento autoritativo e direttivo. Il tipo di costituzione più adeguato, a tale società dovrà contemplare normative sensibilmente imperative, quindi alquanto ispirate al principio maschile. Se una società, invece, manifesta in elevato grado capacità di autoregolazione e trova spontaneamente buoni equilibri tra i due principi vitali nelle sue forme di relazione, nei costumi e nelle strutture organizzative che da se stessa esprime, allora la costituzione che meglio le si addice dovrà possedere caratteristiche più femminilmente che non maschilmente connotate. È anche pensabile, in tal caso, una tendenza a fare addirittura a meno di una costituzione, possedendone la società già incorporate in se stessa i principî ordinativi e le funzioni, a mo' di intrinseca Verfassung. Si danno casi (vi si avvicina il sistema inglese) di costituzioni di tipo consuetudinario anziché scritto: è evidente che qui si tratta di società che al loro interno hanno trovato un buon equilibrio tra parte maschile e parte femminile.

In pratica, è regola generale che la necessità di introdurre una norma giuridica sorge dal bisogno di un intervento di carattere maschile in un contesto in cui eccede l'elemento femminile: vi è allora proprio necessità di disciplina e la norma dovrà fecondare la materia a cui si applica. Ma la norma in sé, cioè al suo interno, deve essere formulata con caratteri tanto più maschili quanto più femminile si presenterà la materia da disciplinare o, viceversa, con caratteri tanto più femminili quanto più saranno d'ordine maschile le caratteristiche della materia, fermo restando che laddove è richiesta la formulazione di una norma si manifesta generalmente una carenza dell'elemento maschile.

Applicando questi principi alla situazione europea e evidente che, in vista dell'eventuale stesura di una costituzione per l'unificazione dei suoi paesi, non si dovranno scambiare automaticamente le eterogeneità e le scarse omologabilità rappresentate dall'esistenza di più stati nazionali, presi nel loro insieme di corpi sociali aderenti, semplicemente come contesto femminile da regolare in maniera marcatamente autoritativa. In quelle eterogeneità, anche se spesso molto stridenti, si dovrà infatti tenere conto se operano anche efficienti capacità di autoregolazione, e quindi fruttuosi equilibri del binomio maschile-femminile, di cui sono certamente dotate molte singole realtà nazionali e territoriali.

Ma qui, come si è detto, noi ci dobbiamo occupare soltanto a grandi linee di aspetti meramente giuridici e, al fine di chiarire le peculiarità più radicali ed elementari della civiltà europea, anche in merito alle sue potenzialità di ordine costituzionale, è bene fare tesoro delle considerazioni inerenti la seconda puntualizzazione simbolica.

 

 

3. Due originarie antropologie giuridiche. “Civitas” e “Socialitas”

 

Affrontiamo ora brevemente il secondo argomento, che mette in luce una delle caratteristiche fondamentali ed elementari della natura del diritto che si è sviluppata nell'ambito europeo. L'Europa è culla di un eccezionale pluralismo culturale, che si fonda su solide e inveterate radici storiche. Ovviamente è una peculiarità che si riflette anche sulle sue consuetudini giuridiche. Se ne possono annoverare a bizzeffe e secondo i più svariati criteri. Lo studio della simbolica ci permette di individuare, fra tante possibilità di interpretazione e di intendimento, anche uno dei substrati più determinanti del costume giuridico.

Per introdurlo, ci possiamo rifare come esempio alle perplessità in cui si dibattono oggi i quesiti circa la compatibilità o meno o il grado di rispettiva estensibilità dei due principali orientamenti ordinamentali europei, quello fondato sul diritto consuetudinario e quello fondato sul sistema di leggi Il primo prevale nell'ambito del diritto comune, praticato prevalentemente dalle corti anglosassoni, il secondo più nelle corti dei paesi che hanno adottato il sistema codificato; nel primo è prioritariamente referenziale il giudice, nel secondo il legislatore. Ho citato soltanto un esempio, nel quale si riflette molto nitidamente l'impronta di una situazione basilare e costitutiva, sulla quale la simbolica giuridica e l'antropologia possono fare molta luce. Che cosa è sotteso a questo esempio? La cultura giuridica europea - pur considerata unitariamente e al massimo grado di generalizzazione - ha alle sue radici due grandi componenti storicamente riconoscibili senza reticenze: la tradizione dei popoli di origine stanziale e quella dei popoli di origine nomadica, che la cultura di derivazione classica usava definire barbarici [2].  Origine, qui, significa naturalmente retaggio, si riferisce quindi a quanto attinge a periodi storicamente già documentati e a costumi consolidati. La compagine europea, complessivamente presa, nasce dalla fusione di queste due tradizioni. Esse, in breve, si devono considerare le due specifiche antropologie di partenza, che qui mettiamo in evidenza solo sotto il profilo della genesi e dei fondamenti del senso giuridico comune europeo e delle sue caratterizzazioni.

Dobbiamo riferirci particolarmente alle popolazioni di origine germanica (ma anche celtica e slava), presso le quali predominavano consuetudini di impronta nomadica, precisamente non costruttrice di città, nomade essendo la costitutività del loro originario modo di vita. Si tratta di popolazioni che si sono espanse soprattutto nelle aree continentali interne, pur non mancando tra esse consuetudini da navigatori (come per esempio i Vichinghi), estendendosi anche nelle isole nordiche. E dobbiamo riferirci poi alle popolazioni, come in primo luogo quelle di origine latina ed ellenica e altre minori, fiorite soprattutto nelle aree mediterranee, che hanno sviluppato molto prima delle precedenti delle consuetudini stanziali, diventando, quindi, costruttrici di città. A noi, qui, serve solo fissare i concetti-chiave che spiegano le differenze tra i due diversi tipi di cultura giuridica.

I popoli germanici e celtici, come anche gli slavi, erano di consuetudini nomadiche. Si spostavano sul territorio sfruttandone di volta in volta le risorse, vivendo sparsi in piccoli gruppi tra le boscaglie, le brughiere, le pianure più ubertose, avendo la famiglia e i nuclei di stirpe come struttura aggregativa di base. Non erano, ripetiamo, costruttori di città. I loro villaggi, spesso agglomerati più di difesa che di organizzazione sociale, indipendentemente dall'estensione non crescevano mai sulla propria storia ed erano privi di vere e proprie costruzioni architettoniche caratterizzate da significati pubblico-celebrativi o monumentali. Neppure le esigenze culturali richiedevano l'erezione di templi o di opere speciali; le relative pratiche erano connesse tutt'al più con luoghi e con speciali conformazioni naturali, come taluni tipi di vegetazione o boschi o rupi o massi, boschi, acquitrini, antri o rilievi particolarmente caratterizzati; e neppure abbisognavano della costituzione di corpi sacerdotali istituzionalizzati. I loro culti erano infatti affidati a pratiche magiche, strettamente legate alle proprietà vere e immaginarie della natura e agli influssi di esseri misteriosi che a mo' di genî e di entità fantastiche la popolavano o la governavano. Anche quelle che si possono considerare, per loro, divinità affini a certune delle mitologie classiche mediterranee, non erano propriamente dèi di un culto locale ed istituzionalizzato. È sufficiente soltanto un'approssimativa conoscenza dell'antica mitologia germanica per rendersene immediatamente conto. In ogni caso il punto che è qui da sottolineare è che una civiltà nomade, i cui fondamenti culturali non sono di natura stanziale, oltre a non essere costruttrice di città non esprime nemmeno strutture istituzionali e precisi ruoli di funzionari gerarchizzati, che sono di fatto necessari all'interno di una compagine di composizione cittadina e stanziale.

Per ben comprendere le differenze tra le due tipologie occorrerebbe studiare attentamente il rispettivo modo di riferirsi all'occupazione e alla fruizione del suolo, profondamente diverso essendo nei due casi il sentimento coltivato nei confronti del territorio.

A differenza delle consuetudini nomadiche, una civiltà stanziale tende a perimetrare i confini, istituzionalizza gli insediamenti umani con specifiche norme, consacra, per così dire, il territorio con la propria storia e con le proprie leggi, arricchendolo e tramandandolo alle generazioni successive, distribuisce e specializza gli spazi, assegnandoli, in vista delle funzioni, all'organizzazione pubblica, al culto, a quella famigliare e privata, alla coltivazione dei campi, agli allevamenti, alle strutture di approvvigionamento e così via. Da sottolineare soprattutto che, nell'insediare nel luogo il proprio dio o i propri dèi, i costruttori di città sviluppano anche un sistema di istituzioni nelle quali spicca sempre un centro gerarchicamente superiore ed autoritativo. È sempre pubblicamente visibile e percepibile l'esistenza di un vertice autoritativo stabile, almeno formalmente, in assenza del quale la città piomba nei disordini e si disgrega. La città mediterranea è essa stessa concepita come un'unica grande istituzione che riconosce gerarchicamente al di sopra di sé, ma nel contempo anche strutturalmente incorporato in sé, un centro di riferimento unitario ed unificatore, depositario dell'autorità che si estende sull'intera comunità. E la città, a sua volta, può farsi centro di un più vasto complesso, che può configurarsi nella forma di un regno, di un sistema di colonie o di province e simili. Così è .per la città antica, e così per gli antichi regni, fioriti in modo particolare nelle aree mediterranee e del vicino oriente.

Le culture nomadi di cui si detto, invece, non producono istituzioni di tal genere e, a rigore ne sono affatto prive, riducendo la loro organizzazione sociale alle consuetudini e alle ritualità connesse con la famiglia, più o meno estesa, o con aggregazioni di piccoli gruppi, che solo in caso di pericolo comune e di guerre si adoperano a stabilire le debite alleanze e ad eleggere dei capi militari. Quanto al territorio, esso è per le loro usanze oggetto di conquista e di appropriazione, e da utilizzare, da sfruttare e da rendere comunque anche ritualmente propizio; per gli antichi popoli nomadici europei sostanzialmente con un territorio ci si deve comportare più o meno come con gli esseri viventi: si cerca di renderselo propizio, ci si allea con esso lo si sottomette. Del resto, le necessità di sopravvivenza e i modi di vita facevano, di questi popoli, dei popoli guerrieri, dediti alle scorrerie e ai saccheggi.

Ma, detto ciò, veniamo al punto che maggiormente ci interessa.

Le culture mediterranee di tipo stanziale - sensibili, come si diceva, al riferimento ad un centro autoritativo - hanno coltivato l'attitudine ad immaginare una fonte normativa superiore istituzionalizzata, regolatrice della vita della città. Questa fonte coincide sostanzialmente con la legge, ufficialmente proclamata, riconosciuta e formalmente istituzionalizzata o, più propriamente, con un'istituzione legalistica, comunque venga definita ed interpretata: diciamo che la città si riconosce in una sorta di nomos che ne qualifica e specifica l'identità. La supremazia della legge dichiarata e istituzionalizzata, o comunque di un insieme di regole superiori ed istituzionali che la comunità deve rispettare nell'ambito della propria giurisdizione, è il riflesso normativo della supremazia di un'autorità stabile gerarchicamente strutturata. La cultura giuridica espressa dalle tradizioni stanziali è ispirata ad un istituzionalismo legalistico e pone a proprio fondamento un'idea di legge incorporata nella città, ossia di vincolo autoritativamente posto, che costituisce il cuore normativo della civitas.

Le culture di origine non stanziale, di contro, trovano il loro fondamento originario non in un nomos e in una legge istituzionalizzata (quelle che nel loro caso si sogliono chiamare leggi erano in realtà non molto di più che costumanze connotanti), ma nel patto; questo è l'accordo o il sigillo dell'alleanza che si stipula tra gruppo e gruppo, tra capi o coi capi e che costituisce la vera fonte delle norme da rispettare nel quadro di una particolare specie di socialitas. Qui la norma consiste nel tenere fede al patto. In queste culture più è marcata l'ascendenza guerriera più la legge suprema è costituita dalla fides, dalla fedeltà al patto stipulato e al capo; è questa fides che lega i singoli al capo e i capi tra loro. Il rapporto è tra comites (compagni, da cui il moderno “conte”), o meglio ancora tra socii congiunti dalla reciproca fides.

Legge istituzionale, dunque, e contenuti delle sue regole, nonché autorità conformi alle leggi e al nomos da parte dei fondatori di città; patto o accordo e fedeltà ad essi da parte delle culture nomadi. Questi due fondamenti formano rispettivamente l'essenza di quanto può essere considerato come validità fondativa delle norme giuridiche.

Se, risalendo alle origini, la forza coesiva dei popoli stanziali è affidata a un principio superiore unificante e normativo (e quindi ad un”istituzione che la rappresenta, si tratti di singoli individui legittimamente investiti, di assemblee o organi collegiali o corpi sacerdotali), presso i popoli nomadi è piuttosto la figura del capo, della guida che possiede i caratteri del condottiero. E perciò i capi che incontriamo nella tradizioni anticogermaniche non sono configurati come dei saggi, non sono dei sapienti, bensì dei forti guerrieri. La sapientia, che è ispirativa delle regole che devono governare la città e di cui la legge è l'espressione, è concetto totalmente estraneo alla mentalità di tipo barbarico, più propensa ad affidarsi ad una guida, alla forza e alle manifestazioni di carattere magico. La sapientia sovraintende alla civitas mediante le leggi, ma non presiede affatto alla socialitas.

Tanta è la perduranza di tali caratteristiche nei popoli che più direttamente discendono da questa tradizione, che la sapientia “politica”, per esempio nella cultura tedesca, è stata un costante oggetto di ricerca e di elaborazione intellettuale, che ha trovato più spazio nelle speculazioni della Bildung e nell'opera dei giuspubblicisti che non nei contesti spontanei dello spirito del Volk e delle dinamiche di governo.

Ma si fa forse ancora più evidente tale perduranza se si pensa alle dottrine giusnaturalistiche moderne e al contrattualismo, che a partire dal XVII secolo trovano dei sostenitori in forme aggiornate specialmente tra coloro che praticano concezioni di stampo anglosassone. Appellarsi all'idea di un contratto sociale o di una convenzionalità, pur variamente intesa, a fondamento dell'organizzazione collettiva e delle istituzioni politiche e civili non e altro che il tentativo di riformulare con criteri razionali il principio pattizio praticato dalla tradizione nomadica, alternativo alla sapientia e all'auctoritas di una legge istituzionalizzata. Non è casuale, del resto, che tali dottrine e teorizzazioni abbiano attecchito e trovato la loro fioritura specialmente in aree culturali maggiormente eredi di quella tradizione, piuttosto che in quelle di eredità mediterranea. E ancor meno casuale è che buona parte degli intellettuali e dei politici tedeschi facciano appello in sostituzione dell'idea di nazione alla cosiddetta “lealtà costituzionale”, considerandola sostanzialmente un atto di fedeltà a un patto costituzionale; ma cosa altro è nella sua essenza questa “lealtà” se non una riproduzione aggiornata ed addolcita dell'antico modello pattizio barbarico? È bene, concettualmente, trarne qualche conseguenza.

Quanto all'idea che vi debba essere un rincipio-guida istituzionalmente superordinato al governo, secondo la concezione degli antichi popoli stanziali mediterranei, essa darà vita, nelle forme più evolute, al corpo istituzionalizzato della civitas, che può riprodursi anche in dimensioni concettualmente più elaborate, come lo fu la res pubblica romana o a forme di civitas espansa e di insieme di civitates. L'idea di sovranità, il sorgere di corpi amministrativi preposti alle utilità e all'organizzazione collettiva e sostanzialmente l'idea moderna di stato col complesso dei suoi apparati e di norme costituzionali e di diritto pubblico in generale non sono che lo sviluppo aggiornato delle antiche concezioni stanziali.

Ecco in sintesi i due concetti di base che riassumono molto efficacemente la duplice radice della cultura giuridica europea: civitas e socialitas. Nella civitas (di origine stanziale) il vincolo che lega la comunità è la sudditanza o la cittadinanza; negli aggregati pattizi è la socialitas (di origine nomadica), il legame tra socii. Con terminologia latina, che riflette due rispettive forme di organizzazione sociale già avanzate e consolidate, civitas e socialitas designano con sufficiente chiarezza le due diverse antropologie giuridiche che abbiamo delineato, cioè i due modelli fondamentali della giuridicità europea. Le trasformazioni intervenute nel tempo, che hanno reso stanziali le antiche popolazioni nomadi e mobili le stanziali, non hanno affatto cancellato e reso irriconoscibili i due modelli ispirativi della normativa giuridica, anche se gradualmente li hanno resi promiscui.

Considerazioni più analitiche ci condurrebbero a precisare specifiche caratterizzazioni, molte delle quali indispensabili per comprendere a fondo il substrato delle strutture giuridiche europee. I due modelli fondativi della giuridicità che abbiamo individuato non devono essere interpretati, ovviamente, in rigida contrapposizione, e sarebbe del tutto assurdo considerarli in atto separatamente operativi in distinti paesi; questi ne possono essere più o meno caratteristicamente permeati. L'evoluzione dei sistemi di vita, il tipo di stanzialità che si è attuata in tutti gli ordinamenti europei e il tipo di mobilità sociale e migratoria sviluppatosi nei secoli ci offrono un quadro misto e composito. Del resto, la fusione delle due concezioni è già nitidamente reperibile nell'antichità, che ci offre anche esempi di insediamenti stabili tra i popoli barbarici ed usi nomadici nell'interno delle aree mediterranee, a incominciare dalle popolazioni arabo-semitiche. Ma citiamo solo i due esempi di maggior rilevanza e di più evidente incidenza sulla civiltà europea come tale, che apparentemente potrebbero contraddire l'idea della centralità di una legge scritta e istituzionalizzata o autoritativamente posta tra le popolazioni stanziali e quella della centralità pattizia presso quelle nomadiche. Si tratta dei modelli ebraico e romano.

Si pensi alla tradizione ebraica. Il popolo ebraico ha origini nomadiche, ma si riconosce in una legge, che si fa scrittura e che tende ad istituzionalizzarsi, segnatamente la legge mosaica. Sugli sfondi si fanno strada gli influssi compositi di un complesso crogiolo di civiltà delle quali l'ebraica ha fatto parte e tra queste - tralasciando il particolare rapporto con la cultura egizia - quelle costruttrici di città della Mesopotamia. Non bisogna dimenticare, tuttavia, che il fondamento di tale legge è pattizio, poiché il suo nucleo legittimante è il patto stipulato tra il Signore ed Israele, il patto della loro alleanza, che probabilmente agglomera il patto intercorso tra le sue diverse tribù. Non si dimentichi, fra l'altro, la figura primordiale di Caino, il fratricida, che col suo gesto prefigura colui che esce dall'orizzonte del patto, e la Bibbia afferma che è proprio da lui che discendono i fondatori di città [3].

Ma la differenza principale tra la tradizione ebraica e quella delle popolazioni nomadiche europee sopra citate sta nel carattere pastorale, che domina nella prima e il carattere guerriero che domina nelle seconde. Nella civiltà ebraica il patto prioritario fondativo della norma è con una figura soprannaturale, cioè il Signore, assolutamente superordinata ad ogni altra realtà percepibile, col quale si stipula il patto, l'alleanza, ma che è a sua volta anche il garante dei patti; nella ,civiltà antico-germanica il patto fondativo è invece il principio stesso, ed intercorre tra gruppi, tra capi e, nei culti, altresì con forze naturali; né si dimentichi che la divinità principale dei germani è Wotan,`il supremo garante della fedeltà ai patti, la cui insegna è una lancia che reca in cima appunto la runa dei patti. Da questi caratteri, naturalmente, discende anche un diverso atteggiamento nei confronti del territorio: questo è simboleggiato nella tradizione ebraica dall'immagine della terra promessa, ossia della terra su cui sorgono i pascoli del Signore, con tutte le conseguenze escatologiche che ne discendono. Se si volesse stabilire un parallelo, mentre la tradizione pastorale immagina i pascoli del Signore, la tradizione guerriera immagina il Walhalla, paradiso degli eroi che muoiono in battaglia [4].

Ma passiamo al secondo esempio, sotto il profilo degli interessi giuridici in assoluto più importante di ogni altro: la civiltà romana, considerata la fonte più universale di tutto il diritto europeo. Si potrebbe certamente sostenere - e con argomenti indiscutibilmente attendibili - che Roma, pur esprimendo una civiltà senza alcun dubbio di tipo stanziale, facente assolutamente perno sulla centralità della città ed essendo tipica espressione di civiltà costruttrice di città e a pieno titolo istituzionalistica nelle sue concezioni di vita, non presenta propriamente al vertice delle sue istituzioni un testo legislativo autoritativamente promulgato e “istituzionalizzato” o una struttura normativa gerarchicamente preposta a quelle dell'intera comunità: tali non si possono certamente considerare né le Dodici Tavole né, a stretto rigore, le leggi di Numa Pompilio. Basti un confronto con la non lontana tradizione greca, fondatrice delle poleis.

I greci usavano per lo più idealizzare e mitizzare come fondatori dei loro ordini figure di saggi legislatori, come un Solone per Atene o un Licurgo per Sparta; i romani invece considerarono fondatore della loro città Romolo, autore di un iniziale gesto di forza, l'uccisione del fratello Remo, che la patristica cristiana ha assimilato al fratricidio commesso da Caino; Romolo è dunque una figura di capo con caratteristiche di tipo militare, che presumibilmente esprime la presenza di un patto intervenuto coi suoi seguaci, ma certamente non una figura di sapiente legislatore. Ma questa particolarità, tramandata dalla leggenda della fondazione di Roma, ci riporta al ricordo di un'originaria organizzazione nomadica e pastorale prestanziale, quale era quella dei più antichi abitatori del luogo, confermando con ciò i caratteri che abbiamo riscontrato nelle consuetudini dei popoli non stanziali e non costruttori di città. È evidente la profonda differenza che intercorre tra Roma e la città greca. Quest'ultima si identificava con un nomos depositario di una sua saggezza (sophia); il nomos, da una parte, si contrappone alla physis, cioè alla natura e quindi alla immediata contiguità con essa, e, dall'altra, al puro kratos, che è la forza e la potenza ineluttabile degli dèi. Il fatto, comunque, che Roma sia l'esempio più significativo di antica civitas e di istituzionalismo ci mostra anche la portata universale della sua visione, giacché essa ha saputo in maniera speciale ed originale fondere i due modelli, mantenendo salda nei suoi ordinamenti l'idea di una centralità unificante e al tempo stesso l'impronta di una sorta di patto tra familiae e gentes, di cui si fa depositaria la res publica col suo jus e coi suoi mores e con l'estensione, verso l'esterno, dei foedera con gli altri popoli. L'antica Roma, infatti, rappresenta nella sua complessità il più illustre modello di civitas espansa e di civiltà fondata sulle istituzioni, sapendo sussumere in sé anche l'influsso delle consuetudini originariamente nomadiche, visibili soprattutto nella concezione delle strutture “private” e nello sviluppo di un diritto obbligazionale che nel modo di pensare attualmente diffuso definiremmo di carattere privatistico e di fonte prioritariamente giurisdizionale anziché legale. Nella civiltà romana, come si vede, si può riscontrare una speciale fusione tra principi propri della civitas e principi propri della socialitas, uniti dalla forza di attrazione di una città. La si potrebbe definire una civitas socialis.

 

 

4. Conclusione

 

Ho fornito poche indicazioni fugaci. La concisione induce naturalmente ad affermazioni apodittiche, che come tali possono legittimamente sollevare dubbi e quesiti e che necessitano di precisazioni documentate. Qui mi sono limitato a poco più dell'enunciazione dei temi, consapevole dell'enorme portata delle loro prospettive e dei rischi insiti nelle approssimazioni necessarie ad un'esposizione tanto succinta, quanto quella che ora si è condotta. Ma lo scopo, nel nostro caso, è solo quello di destare l'attenzione del politico e del giurista su problemi di primaria importanza che abitualmente essi tendono ad ignorare.

Si può forse azzardare l'osservazione che, dove predomini la fiducia nella società civile rispetto alle istituzioni statuali, ivi sono più marcate le impronte di ascendenza nomadica; viceversa dove predomini la fiducia nelle istituzioni statuali più che nella società civile, le ascendenze remote ci riportano più sensibilmente alla tradizione stanziale: nel primo caso la norma sarebbe più spontanea ed emergente dalla prassi e dalle consuetudini, anche giurisdizionali, e dalle dinamiche della vita associata, nel secondo caso più esternata in base a principi precostituiti e proclamati, e tendenzialmente più espressamente sancita. Ma è un'ipotesi, questa, tutta da approfondire. Il punto in questione, invece, è decisamente un altro.

Molte delle divergenze in atto circa le strade da seguire in merito agli ordini giuridici - sia sotto il profilo costituzionale, sia sotto quello legislativo che sotto quello giurisdizionale - potranno avviarsi nelle direzioni più confacenti alle potenzialità dei popoli europei se cercheranno la loro soluzione tenendo conto di quanto sopra mi sono provato ad esporre.

In particolare bisogna saper riconoscere la presenza concorrente di istanze istituzionalistiche e di istanze consociative. In generale, le istanze istituzionalistiche mirano a costruire un sistema che si riconosce in momenti unitari strutturati con tendenze all'accentramento direttivo e sono propense ad invocare una più marcata uniformità legislativa e giurisdizionale; le istanze consociative, invece, propendono per una maggiore autonomia dei soggetti sociali o degli aggregati, anche territoriali, convergenti nell'intero sistema. La presenza di queste due anime si riscontra anche nel modo di concepire una costituzione: questa è vista piuttosto come l'espressione di un patto o di un accordo tra parti dall'anima consociativa, e piuttosto come autoritativa rappresentanza di una comunità omogenea dall'anima istituzionalistica. Entrambe le istanze sono presenti, per così dire, nell'anima europea e sono nel complesso promiscuamente distribuite tanto nella popolazione quanto sul territorio, con maggiore o minore accentuazione nell'una o nell'altra area. Localisticamente, dove meglio coesistono o dove l'una meno abbisogna dell'altra, la vita sociale e civile è più prospera e stabile.

Istituzionalismo e consociativismo, civitas e socialitas. Se una normativa europea si orienterà manifestando carenze di una centralità di tipo statualistico, lascerà inappagate le aspettative della civitas; se invece tenderà ad accentuare quelle strutture centralizzanti provocherà le in- soddisfazioni della socialitas. L'originalità, ma anche le difficoltà, del sistema giuridico europeo stanno nella capacità di esprimere contemporaneamente le direttive della civitas e della socialitas. Le due concezioni ci riportano anche all'idea dell”equilibrio organico tra i due principi vitali di cui si è sopra parlato, prevalendo nei connotati della civitas il carattere maschile e nei connotati della socialitas quelli di carattere femminile. Saper integrare nel rispetto della loro complementarità civitas e socialitas, due eredità proprie della cultura europea, è altresì il non facile compito che deve assumersi il nuovo ius publicum europaeum. Non è del tutto inutile ricordare, tra l'altro, che un'armonizzazione di queste due concezioni si era già prefigurata secoli fa, in contesti certo molto diversi da quelli presenti, con la istituzione imperiale; alludo naturalmente al Sacro Romano Impero, che non a caso è anche stata storicamente l'istituzione più prossima ad una visione unitaria dell'Europa. In esso si contemperavano le diverse tradizioni stanziali e nomadiche, fondendo la civitas e la socialitas, non più intorno ad una città, come nel caso dell'antica Roma (a cui però rísale l'eredità della struttura universalistica), ma, attraverso il filtro unificante del cristianesimo, intorno ad un imperium inteso come un'istituzione super partes, :dotata di un .superiore potere giurisdizionale, alla quale-fanno capo le civitates, le societates, le nationes, i popoli.

01. La frase latina è di Gerolamo Cardano.

02. Le due diverse concezioni della giuridicità che qui metto in luce come componenti fondamentali (la stanziale e la nomadica) si devono considerare come un'integrazione diversamente orientata dei principî giuridici desumibili dal dualismo tra civiltà di terra e di mare (distinzione collegata anche alla nota teoria ritteriana della continentalità e dell'insularità dei sistemi politici), di cui, per esempio, tratta Carl Schmitt. Cfr. in particolare C. Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello Jus publicum europaeum, tr. it., Adelphi, Milano, 1991 (or. in riediz., Der Nomos der Erde im Volkerrecht des Jus publicum Europaeum, Duncker und Humblot, Berlin, 1988).

03. Cfr. Genesi, 4, 17.

04. L'immaginazione escatologica o quella dell'al di là delle varie concezioni religiose è una ricca chiave di lettura per interpretare le mentalità costumali dei popoli. Per rimanere nelle aree euromediterranee: i germani immaginavano il Walhalla un paradiso guerriero, nel quale l'eroe valorosamente caduto in battaglia viene trasportato dalle Walkirie, figure guerriere femminili, e nel quale sembrano rifulgere soltanto armi lucenti, elmi, scudi e cavalcate; i musulmani immaginano il giardino di Allah, dove il buon fedele, tra balsami inebrianti, è contornato da figure femminili di tutt'altro stampo, le Uri dagli occhi neri, che mollemente amoreggiano con lui; gli ebrei immaginano invece i pascoli del Signore, dove i fertili campi alimentano tranquillamente le capre e le pecore e dove gli uomini possono godere della pace del Signore; gli antichi greci e tutto il contesto di gran parte dell'antichità classica immagina i campi elisi, dove le anime intrecciano corone di fiori e passi di danza al suono della cetra. Prese da lontano e nel loro insieme, queste immagini possono apparire in una luce piuttosto comica, ma tutt'altro accade se analizzate nelle loro valenze simboliche - poiché assolutamente simbolica è la loro natura - che ne rivelerebbero il loro significato di stati di coscienza del costume interiore e delle sue proiezioni nella visione collettiva.