PAULO FERREIRA da CUNHA                                                                           January 1998

Available at: http://works.bepress.com/pfc/61

 

DALLA SIMBOLOGIA GIURIDICA A UNA

FILOSOFIA GIURIDICA E POLITICA SIMBOLICA?

ovvero

Il Diritto e i Sensi

 

I. Il Diritto e la Cultura dell'/lscolto e della Parola

Vi confiderò, oggi, due segreti cosa che i giuristi, per prudenza o per discrezione, raramente fanno. Non commetterò nessun reato, né mancanza deontologica: non svelerò segreti di giustizia, ma segreti sulla Giustizia. E' più grave ma non è punibile: i segreti sono due e l'uno è legato all'altro come in ogni simbolo che si apprezzi.

Chiedo la Vostra attenzione perché se il primo lo conoscete già, tuttavia lo comprenderete pienamente solo alla fine, quando Vi rivelerò il secondo che a questo è collegato.

Il primo: il Diritto, apparentemente insensibile e statico, muta di significato e ne accoglie di nuovi a seconda dei differenti sensi che simbolicamente utilizza.

I Romani, illustri giuristi ed emeriti politici, promossero una cultura giuridica dell'ascolto. Forse per questo noi, suoi eredi soprattutto giuridicamente, continuiamo ad associare il Diritto e la Giustizia all'audizione. Entrare in un tribunale è assistere ad un'udienza, ci sono giudici e esperti legali che sono chiamati uditori, già ci furono magistrati detti uditori, ecc..

Per noi far giustizia è in primo luogo ascoltare quello che ognuno "dice della sua giustizia". Dire della sua giustizia affinché si dica la Giustizia. Dire la giustizia, pronunciare la soluzione in jure, è fare il diritto come un fiat lux. La parola è magica, pronunciata ritualmente e ascoltata.

Le stesse teorie moderne di legittimazione politica e giuridica, come quella di Niklas Luhmann con la sua Legitimation durch Verƒahren [1] (legittimazione attraverso il procedimento), nonostante lo scetticismo del suo autore sulla comunicazione che considera "improbabile" [2], si risolvono, nella maggior parte dei casi, nell'ascolto degli interessati. E cos'è la macchina della legittimazione in Juerguen Habermas se non l'ideale di un consenso comunicativo, di un adesso relativamente concorde, dopo un'escussione'? [3]

Una regola resta al Diritto, nella tradizione come nella cosiddetta post-modemità: ascoltare. Audiatur et altera pars. Ascoltare entrambe le parti.

 

 

II. Il Diritto e i sensi atrofizzati

Tuttavia questa esagerazione dell'udito nel Diritto, come succede con l'uso di qualunque senso nella vita dei singoli, si ripercuote necessariamente sugli altri.

La prima conseguenza di questa cultura dell'audizione che è anche cultura dell'oralità, del discorso e della scrittura (di tutto ciò che serve per parlare e fissare quello che può essere detto) è la volontaria atrofia degli altri sensi: il tatto, il gusto, l'olfatto e la vista.

ll Diritto quasi non tocca le cose. Le concepisce mentalmente, le dice, però, anche se con i guanti deve toccare il corpo del delitto. Fermiamoci per un innocente esempio sul graduale allontanamento del contatto fisico con le persone e le cose nel Diritto. La Fides, dea che risiede nel palmo della mano dei contraenti [4], serviva anticamente a suggellare i contratti. Pacta sunt servanda. Ma con il suo non compimento (o con tale pretesto) Fides dette luogo alla riduzione per iscritto della maggioranza dei patti e delle altre transazioni di ri1ievo [5].

Il Diritto diventò insipido e il fiuto, proprio della virtù della prudenza, fini per essere affidato (lo testimonia il linguaggio corrente) alla sagacità dei politici.

Il Diritto diventò, così, anche inodoro.

Cosa successe alla vista?

 

 

III. Vista e Teoria del Diritto: un senso alternativo

E' interessante vedere come la vista, potentissimo mezzo di captazione della realtà, tanto o più inglobante e mobile dell'udito e già suo coadiuvante nella fissazione per iscritto della parola [6], sia stato e sia il senso espressamente o inconsciamente più usato dalla cultura dell'ascoltare e dell'ascoltare dire.

Quando la civilizzazione classica sprofonda nella penombra medievale si ergono le bibbie di pietra, con la loro perenne eloquenza, cattedrali che lasciano la loro testimonianza agli occhi.

Ma a Roma, nella Roma del Diritto, la dea Iustitia alzava gli occhi bendati come il lupo di Cappuccetto Rosso aveva orecchie grandi: per sentire meglio. Non fu per caso che Walt Disney scelse la cantante che avrebbe dato la voce al personaggio di Biancaneve appostato dietro lo scenario senza poterla vedere per ascoltarla meglio: ciechi gli occhi del corpo per aprire quelli dell'anima, nello specifico per non fare preferenze, per non vedere il ricco e il povero, il bello e il brutto, solo per ascoltare gli argomenti e scegliere i buoni argomenti.

Il processo scritto, prima dell'inquisitorio e soprattutto prima dell'ordinamento processuale austriaco di Klein e dell'incentivo decisivo che dette all'oralità e all'immediatezza, portò al parossismo questa idea di una giustizia "cieca". In qualche modo questa cecità della giustizia si potrebbe associare, nei suoi aspetti più perversi, al brocardo mille volte ripetuto dai burocrati di tutto il mondo, a quello che sembra il frutto del rantolo del Diritto Romano: dura lex, sed lex. La legge dura e cieca ma per compiere. Non meraviglia che sia insipida e inodora. Continua, allora, colorata tra il rosso e il nero, tra il rosso e il nero del sangue della morte, della servitù, della trasgressione e della punizione [7].

Per quanto la cultura dell'ascolto, della dialettica, dell'argomentazione, della parola, del Logos, poi, della razionalità, abbia voluto allontanare la vista, l'immagine, il movimento (che deve essere visto), il gesto e la sua ritualizzazione e poi la sua fissazione (soprattutto plastica) in simbolo [8] (che unisce ciò che per natura è movimento perché è il gettare o lanciare qualcosa: sun-ballein) è esistita sempre una parallela tradizione di un diritto dello sguardo, visto, visibile.

Le statuette del caldeo Gudea e dell'egiziano Kay, testimoni delle due principali civilizzazioni agli albori della storia, rappresentanti rispettivamente il signore e il funzionario (lo scriba) investiti di poteri giuridici mentre guardano attenti, mentre scrutano, bene potevano essere elevate a simboli del Diritto.

Jonathan Swift, nella sua utopia di Lilliput, concepisce una giustizia come uno sguardo di multipli occhi (intorno alla testa) a denotare una comprensione totale di ciò che lo circonda [9].

La stessa origine epistemologica autonoma del Diritto che un filosofo e storico delle scienze come Michel Serres vede sorgere prima o contemporaneamente alla geometria, agli harpedonaptas che misurano i terreni rubati alle piene del Nilo [10], secondo il racconto di Erodoto (Historia), non sarebbe derivata se non da una necessità di riattribuzione delle terre ai suoi proprietari originari; imporre la misurazione delle stesse implica un guardare, non un guardare profano, ma di confronto del dato, del visto con un altro visibile elemento di riferimento: lo strumento di misura.

 

 

IV. Vedere o non vedere: questo è il problema

Il grande problema del Diritto e della Giustizia diventa, sembra adesso evidente, un problema di vista.

Non meraviglia, allora, che sia stata la benda sul viso delle rappresentazioni della Giustizia a dare più problemi e a far nascere le spiegazioni più interessanti, apparentemente definitive e sempre irrimediabilmente provvisorie perché parziali.

La stessa storia delle ricerche sulla benda e i tipi di risposta incontrati per essa esemplificano perfettamente le vicissitudini, il dramma interno e intrinseco della giuridicità [11]..

Realmente il Diritto è un manto diafano che copre il nostro quotidiano. Onnipresente nella sua protezione che si lascia captare solo quando c'è una violazione; onnipresente nella sua apparente naturalezza, attaccato inscindibilmente ai fatti quotidiani delle nostre vite, incastonato nei mille e un contratti che tutti i giorni facciamo o rinnoviamo, ecc.. Ora questa presenza normalmente invisibile del Diritto, invisibile perché non percepita, è, come succede con i simboli, tanto più forte quanto meno si vede. Perché l'invisibilità, come nell'Anello di Giges di Platone nella sua Repubblica (o nell'Uomo Invisibile di Wells) è soprattutto vedere e non essere visto.

Nonostante la sua presenza discreta che la maggioranza delle persone ancora identifica con le imposte e le multe di transito (Carbonnier [12]), il Diritto è troppo presente per essere così poco visto. Visto, pensato e teorizzato perché theoria è visione, come ben sappiamo.

Saint-Exupéry in Il Piccolo Principe afferma che l'essenziale è invisibile agli occhi e Pascal (Pensées) che Dio avrebbe coperto la verità con un manto per renderla invisibile a quelli che non ascoltassero la sua voce.

Pascal e un esempio finito della cultura della parola: fa dipendere la visione della verità dalla recezione della parola, dall'ascolto. La volpe, animale fiutatore, non si fida delle apparenze. Per questo per il filosofo di Port Royal la giustizia è divertente perché muta con le rive di un fiume o il limes di una montagna quando dovrebbe essere una cosa sola con la verità. Anche la giustizia ha un ruolo poco importante in questa epitome di una cosmovisione quale è il celebre racconto del pilota letterato: Il Piccolo Principe è in primo luogo una storia di politica e poi una storia di principe e volpe.

Non resistiamo alla tentazione di far intervenire in questo dialogo cosi eterodosso Oliveira Salazar che governò il Portogallo come Presidente del Consiglio per quarant'anni, il quale affermava: "ln politica quello che sembra è" [13].

Per la volpe sarebbe il contrario. Normalmente è il contrario di quello che succede, ma la politica è un gioco di rituali e azioni simboliche in cui vale la regola d'oro del non occultamento attraverso l'occultamento e viceversa. Per questo in politica il superficiale risulta essere il reale solo nella misura in cui ciò che è non sembra esserlo.

 

 

V. Trompe-l'oeil. Platone e Raffaello nella Stanza della Segnatura

Non sarà per di qui che incontreremo la nostra pista ma in Platone dove l'opposizione chiarità e mezza luce della penombra tanto ci ricorda le condizioni del vedere. Si vede qualcosa solo quando questo qualcosa esiste, quando c'è luce e si possiede un apparecchio ottico adeguato alla funzione. Per vedere ci vuole attenzione proveniente da una motivazione. Si può entrare in contatto visivo con qualcosa migliaia di volte e non avere coscienza e ricordo di ciò che si è visto.

Ora Platone è molto eloquente quando drammatizza nel suo dialogo della Repubblica questa ricerca della Giustizia. Lei stava là fusa con i suoi attributi o le sue manifestazioni, ripartita da tutti, adattata ad ogni cosa e a ogni caso e dal tanto essere onnipresente, non era rilevata perché non si isolava dal resto sufficientemente. Dobbiamo dare la parola al filosofo, anche se un po' lungamente:

"Ma, dissi, c'era occorso un caso veramente da sciocchi!

-Quale?

-E' un pezzo, benedett'uomo, che sin da principio quella ci si rivoltolava tra i piedi, e noi non la vedevamo, ma eravamo quanto mai degni di risa; come quelli che hanno una cosa tra mano e talvolta van cercando quello che hanno, così anche noi non ci guardavamo ma andavamo cercando lontano, per cui forse ci sfuggiva.

-Come dici?, fece egli.

-Così, che parlando ed udendo da un pezzo di quella cosa, mi pare non ci siam noi stessi capiti che in certo qual modo era di essa che parlavamo.

-Lungo preludio e questo per chi è bramoso di udire.

-Ma ascolta davvero se dico giusto. Quello che sin da principio stabilimmo si dovesse fare su tutta la linea, allorché fondavamo la città, questo appunto mi pare, o un aspetto di questo, è la giustizia. Stabilimmo certo e spesso dicemmo, se rammenti, che ognuno dovesse curare delle cose della città quell'una cui fosse più propriamente consona la sua natura.

-Lo dicemmo sì.

-Ora, che la giustizia sia il fare il proprio ufficio e non impicciarsi di molte faccende, è cosa che abbiamo udita da altri molti, e spesso detta noi stessi.

-Certo l'abbiam detta.

-Questo dunque, diss'io, o amico, è probabile sia in un certo qual modo la giustizia, il fare l'ufficio proprio. Sai tu da che cosa lo induco?

-No, ma dillo, fece egli.

-Mi pare, diss'io, che il restante elemento nella città, fra quelli che abbiamo esaminato, temperanza cioè e coraggio e saggezza, sia appunto questo che dette a tutti quegli altri la capacità di nascere, e che una volta nati li conserva, sinché vi sia dentro presente. Dicevamo peraltro che la giustizia sarebbe stata l'elemento residuo tra quelli, quando ne avessimo trovati i primi tre.

-Per forza, disse.

-Ma, feci io, se si dovesse giudicare quale soprattutto di questi elementi, presente entro la nostra citta, la renderà buona, sarebbe difficile a giudicare se sia il concorde parere dei governanti e governati, o la preservazione nei guerrieri della legittima opinione su quali sian le cose temibili e quali no, o la saggezza o sorveglianza insita nei capi; o se non questo piuttosto la renda buona, insito in fanciulli e donne, servi e liberi, artigiani e governanti e governati, il principio cioè che ognuno faccia l'ufficio proprio e non si impicci di molte altre faccende?

-Difficile è certo a giudicarsi, disse egli. Come no?

-Dunque, a quel che sembra, per la virtù della città viene in gara, con la sua saggezza, la temperanza e il coraggio, anche la capacita a che ognuno in essa attenda al proprio ufficio" [14].

Dovremmo prolungare la citazione fino al suo epilogo, ma ciò che abbiamo citato già è sufficiente. Manca di segnalare che le traduzioni dal greco circa le virtù invocate da Platone non sono concordi: la traduzione italiana che citiamo, riporta la temperanza, il coraggio e la saggezza, quella francese della Biblioteca della Pléiade di cui è autore Léon Robin ugualmente considera la "tempérance", la "courage" e la "sagesse” [15]. Ma già nella traduzione spagnola del saggio di Edgar Wind sulla giustizia platonica in Raffaello [16] (essenziale, a nostro parere, per questo argomento) le virtù sopra citate assumono una colorazione palesemente cristiana diventando la "Prudencia", la "Fortaleza" e la "Templanza".

Sembra di conseguenza che la Giustizia, come dice Wind "non sia una virtù concreta che si contrappone alla Prudenza, alla Forza e alla Temperanza, ma in primo luogo una potenza fondamentale dell'anima che determina in ciascuna di esse la sua funzione specifica" [17].

In che modo questo passaggio di Platone può avere a che fare con la visione, la visione della Giustizia? Se accettiamo la teoria di Wind secondo la quale Raffaello quando decorava la Stanza della Segnatura in Vaticano si lasciò guidare soprattutto da ispirazione platonica (in questo caso persino concorde con il pensiero aristotelico in una vera concordia Platonis et Aristotelis), concluderemo che l'affresco destinato alla Scienza Giuridica, alla Giurisprudenza paradossalmente non include nessuna figura della stessa Giurisprudenza. Ma non sono là il Diritto e la Giustizia? Sì, ma non si vedono. Non si vedono direttamente, ma indirettamente, simbolicamente. Come accade con i simboli più complessi e densi.

Già incominciamo a intravedere quello che succede: come Platone non vedeva nel suo dialogo la Giustizia parlando delle virtù in cui si incarnava anche il citato affresco ci dà l'immagine prismatica delle tre facce della Giustizia incarnate nelle figure femminili rappresentanti la Forza, la Prudenza e la Temperanza. La prima armata di elmo e corazza, salda in un albero e come se stesse accarezzando un leone; la seconda come se stesse consultando introspettivamente lo specchio; la terza come se stesse esibendo le redini di un destriero, del cavallo nero dell'anima.

Non vedendosi la Giustizia, si vede la Giustizia.

In realtà ciò che succede nella Stanza della Segnatura è un po' più complesso perché nel tetto abbiamo il Diritto in una rappresentazione greca quasi tipica: bilancia e spada impugnati dalla dea (qui in posizione seduta contrariamente al modello ellenico) oltre a tre altre figure che rappresentano la Teologia, la Filosofia e la Poesia. Nel tetto, nel cielo degli archetipi intellegibili, se vogliamo essere platonici, ci sono le idee pure o le pure epistemai; nelle pareti le sue incarnazioni fenomeniche. Così la Teologia incontra, scendendo, l'affresco della Disputa del Sacramento, la Filosofia quello della Scuola di Atene, la Poesia quello del Parnaso. Il Diritto così convenzionalmente rappresentato (alla greca-senza ombra di benda) trova nel reale una realtà molto più complessa: a lui corrispondono, nella parete, il timpano con le tre virtù

(la Prudenza al centro), più in basso i pannelli dell'istituzione del diritto civile e del diritto canonico e tra questi una finestra. La soluzione della tripartizione degli spazi dipinti in questa parete non ha niente a che vedere con la determinazione architettonica della finestra; dall'altro lato un'altra finestra resta incorniciata da un solo affresco, quello del Parnaso.

La Giustizia non si vede personificata in terra, solo nel cielo (o nel tetto). Lo stesso succede alla Teologia, alla Filosofia e alla Poesia. Questa è, vedendo bene le cose, la principale correzione che la complessità della composizione pittorico-spaziale totale impone allo schema di Wind che sembra disprezzare un po' il tetto [18].

 

 

Vl. Giustizia virtù e Giustizia Giuridica:

lettura dell'Etica Nicomachea di Aristotele

Bisognerà sfumare il pensiero di Wind a nostro parere eccessivamente entusiasmato dall'impeccabile geometria delle coincidenze.

E' vero che i dipinti della Stanza della Segnatura rappresentano un grande tentativo di coincidentia oppositorum, di sintesi e riconciliazione universali: classicismo e cristianesimo, ragione e fede, Papato e Impero, ecc.. Lì si incontrano, come sappiamo, da un lato l'affresco della Scuola di Atene, allusivo alla filosofia, quello in cui l'Imperatore accetta il Digesto e dall'altro quello della Disputa, relativo alla teologia, quello dove il Papa benedice le Decretali. Entrambi i testi citati sono giuridici.

Tuttavia è con troppa rapidità che si segnala la concordanza tra Platone e Aristotele e si identifica la Giustizia platonica con la Giurisprudenza giuridica.

Infatti il libro V dell'Etica Nicomachea di Aristotele sembra concordare con Platone circa l'idea di Giustizia quale disposizione degli uomini a compiere azioni giuste [19]. Non volendo, però Aristotele, bloccarsi davanti alla molteplicità di significati della parola Giustizia, né vedersi imprigionato nelle complessità dell'omonimia [20] distingue la giustizia universale da quella particolare e si concentra su quest'ultima [21]. Cita Teognis nella sua identificazione della giustizia universale con tutte le virtù o con la totalità delle virtù (e qui senza dubbio è platonico) [22] per poi affermare che il suo proposito è quello di ricercare l'altra Giustizia che è solo una parte della virtù, la giustizia particolare [23]. E' questa giustizia particolare che interessa soprattutto il Diritto, essendo il suo fine o principio.

Ancora una volta si può dire, con apparente paradosso prima ƒacie, che Raffaello dipinse la Giustizia, adesso Giustizia giuridica, senza averlo fatto. Stiamo attenti che l'assenza-presenza della Giustizia giuridica non sta tanto nell'affresco delle tre virtù (le quali possono ancora rappresentare la Fede, la Speranza e la Carità) quanto nella decorazione nel suo insieme della sala e in particolare nel dialogo che si stabilisce tra la virtù Giustizia, al centro, e la Filosofia e la Teologia dalle quali sembra nascere il Diritto Civile e quello Canonico. Insomma è da questa visione multipla, da questo caleidoscopio di rappresentazioni che risulta questa realtà virtuale, costante e perpetua volontà, come dice Ulpiano, e per questo meglio rappresentata dalle sue manifestazioni e ispirazioni che non da una sua personificazione sempre più impoverita.

Non vedere qui equivale a vedere meglio. Ma non un non vedere qualunque, in fondo è il non vedere di S. Paolo: Videmus nunc per speculum in aenigmate [24]. E' un vedere caleidoscopicamente, come in specchi...

Solo nel cielo (o nel tetto) si vede l'essenza.

 

 

VII. Il Libro dei Simboli. Diritto e vista e visione del Diritto nel Libro di Tobia

Il legame del Diritto con la vista e già stato evidenziato in termini mitici nel libro biblico di Tobia, considerato apocrifo dagli Evangelici e nemmeno menzionato dalla Bibbia ebraica.

Il vecchio Tobia è un credente fedele, un cittadino esemplare [25] nella realtà ebraica di allora. Osserva scrupolosamente la legge; il testo riferisce aspetti esteriori, potremmo dire giuridici: il pagamento della decima, l'offerta delle primizie ai sacerdoti e ai leviti, le elemosine alle vedove e agli orfani, i matrimoni endogamici, ecc.. Anche in occasione della deportazione continua a seguire la dieta ebraica, ad essere elemosiniere, a inumare i morti con evidenti pregiudizi per sé che lo porteranno alla fuga. Antigone, simbolo supremo del diritto supremo-vigente o supremo-volontario-attuale [26], ha qui un analogo: non si tratta di seppellire un fratello, ma, in senso lato, gli insepolti della sua nazione.

Questa storia consta di racconti paralleli che si uniscono come un simbolo: le fortune e sfortune di Tobia (il vecchio e il giovane), di Raguel e sua figlia Sara, del demonio Asmodeo che le assassina sette mariti prima della consumazione del matrimonio.

La soluzione Verrà dall'unione delle multiple metà dei simboli.

Il vecchio Tobia cieco perché dei passeri hanno fatto cadere su di lui escrementi caldi (si noti l'assenza di vista), aveva lasciato in deposito a Gabael una considerevole somma di denaro che il giovane Tobia andrà, poi, a ritirare.

In questo viaggio Tobia (figlio), accompagnato da un giovane che si rivelerà essere l'angelo Rafael, uccide un pesce enorme sulle sponde del fiume Tigri. Le sue viscere serviranno per mettere in fuga il terribile Asmodeo e per sanare gli occhi di Tobia (padre). Il giovane si sposerà con Sara; anch'essa è un'unione simbolica.

Non possiamo analizzare a fondo le innumerevoli implicazioni simboliche di questo testo che sembrano avvicinarlo ad alcune funzioni socio-simboliche di alcuni racconti infantili, nello specifico al ciclo dello sposo-animale [27], legato al rito di passaggio per l'emancipazione. Ci preme, piuttosto, sottolineare come l'intreccio "separare per meglio unire" abbia un valore simbolico suscettibile di essere interpretato giuridicamente perché al di là della giustizia legale, dell'osservanza della norma, è un racconto di contro-prestazioni, contratto e compensazione. Non si dimentichi il contratto di deposito tra Tobia (padre) e Gamael, né il patto prematrimoniale firmato da Raguel e Tobia (figlio). ll giuridismo (questa febbre o constans et perpetua voluntas, del suum cuique tribuere [28]) raggiunge livelli esasperanti: si pensi che si vuole pagare, con la metà degli averi del giovane Tobia, il suo compagno di viaggio, un angelo. Tutto ci illumina sul carattere eminentemente dualista e di reciprocità del Diritto che, in fondo, si può dire soprattutto simbolico.

Solo un'altra precisazione che si riferisce ai sensi: i suffumigi del cuore e del fegato di pesce mettono in fuga il demonio per l'Alto Egitto. Il fiele versato sugli occhi del vecchio Tobia gli snebbia la vista. Possiamo vedere, così, come i diversi sensi si relazionano, completano, equilibrano...

 

 

Vlll. Purezza e Isolamento giuridici: da Platone e Aristotele

ai Diritti Umani e alle visioni post-moderne del Diritto

Riprendiamo la lezione o preoccupazione di Platone, curiosamente corroborata da Aristotele nell'Etica Nicomachea [29], ma con altri occhi.

Il problema che emerge da questi passi e uno dei più importanti e profondi della filosofia del diritto ed è noto con il nome di "purificazione" o "isolamento" del Diritto [30]. Riguarda l'origine del diritto, nonché il suo dialogo con altre realtà e proposte della cultura, dello spirito e della praxis, nello specifico con il fenomeno e lo studio del fenomeno politico.

I Kelseniani e alcuni giusnaturalisti, chi in misura maggiore, chi in misura minore, cercarono di isolare o purificare il diritto dalle sue dipendenze religiose, morali, sociali, economiche e/o politiche.

Hans Kelsen, contemporaneo e conterraneo di Freud e Gombrich, deve aver provato un serio complesso di inferiorità nel vedere che la scienza giuridica tanti secoli dopo il taglio del nodo gordiano che la univa all'albero sincretico dei saperi non epistemologicamente separati, ancora non aveva trovato una definizione totale di Diritto, non era stata capace di delimitare con rigore il suo oggetto. L'ironia di Kant (Noch suchen die Juristen eine Definition zu ihren Begriffe vom Recht [31]) e di Flaubert (Le Droit: on ne sait pas ce que c'est [32]) dovevano riecheggiare continuamente nella sua mente assetata di ordine.

Se persino i recessi della psiche e i sussulti della sensibilità estetica incontravano scienze per esprimersi in forma ordinata, come poteva il Diritto restare nell'eterna impurezza?

Sappiamo che l'impresa kelseniana: passione mentale e metodo (la piramide normativa e la Grundnorm continuano ad essere categorie logiche di cui neanche il più ribelle degli anti-positivisti potrà facilmente liberarsi) naufragò, prigioniera delle sue stesse contraddizioni.

Anche quando soffiarono fortissimo i venti dei diritti dell'uomo, qualcosa a outrance, qualcosa di inaspettato e per alcuni contra natura, diverse voci si alzarono per chiedere un diritto libero dalle imposizioni politiche. Si affermò, allora, la totale politicità di un diritto del lavoro, spesso giocattolo nelle mani del lavoro e del capitale, e si vide come un parnaso edenico il "puro" diritto civile, vecchio e romano, asettico e duraturo che sembrava collocarsi fuori del gioco ventoso del foro [33].

Attaccata dai difensori del taking rights seriously, alle volte troppo serio e contro i fatti [34], abbandonata da quelli che all'inizio dovevano essere i suoi più acerrimi proceri, la bandiera della purificazione del diritto, delle reticenze davanti alla giuridicità incontestata degli human rights, soprattutto nella loro versione o dimensione di diritti sociali, economici e culturali, cadde in mani nemiche. Si verificò un vero fenomeno di recupero dei diritti umani, un "soave miracolo" dei diritti umani in cui il problema della purificazione del Diritto restò inevitabilmente coinvolto.

In una parola, si arrivò ad ammettere che la natura umana o la dignità umano o il semplice fatto di essere uomini è un titolo giuridico che garantisce, a chi lo possiede, il diritto ad una rendita minima di sussistenza. Ecco rientrare attraverso la finestra della dignità umana o della semplice umanità, la dimensione turbolenta, libera, querelante della politica perché mai saremo d'accordo su ciò che è la dignità umana e il minimo di esistenza degna. Una volta rotta la logica ferrea del sistema titolarista si ammetteranno sempre nuove eccezioni, tanto più adatte a far entrare di nuovo la decisione politica nel Diritto quanto più saranno mosse da buone intenzioni.

Insomma il Diritto o non ha niente a che vedere con la politica, il che sembra impossibile, o ha molto a che vedere con lei, nel qual caso non è puro.

Soprattutto quando vediamo sbandierata la regola dell'impurità del Diritto, come una bandiera, la nuova bandiera del pluralismo e del post-modernismo giuridico, ricordiamo che la Giustizia deve essere bendata e non ostentare quello sguardo faceto, malizioso e parziale di una giustizia che spia da una parte della benda.

Il pluralismo giuridico sembra, allora, diventare un tutt'uno con gli oggetti che tocca, sembra dissolversi nella molteplicità degli attori e degli interlocutori. E' in questo senso che si realizza 1'anatema giuridico dell'impurità che Kelsen raccoglierà nella sua Reine Rechtslehre: il Diritto, come il mitologico re Mida, trasforma non in oro, ma in Diritto tutto quello che tocca [35]. Il più grande problema, allora, non è la giuridificazione ma l'abdicazione della giuridicità per l'assunzione dell'identità estranea.

Senza negare la relazione con la politica di tutto il Diritto, una giustizia politica, come finisce per essere in gran misura la giustizia di fattezze post-moderne, solo può sfociare in ingiustizia: fu quello che accadde in tutte le grandi sentenze della storia.

 

 

IX. Il secondo segreto del Diritto

Il problema della politica e del diritto incontrerà una possibile risposta nell'analisi simbolica della giuridicità con fondamento nel pensiero simbolico e nei simboli giuridici più classici.

Partendo dal generale per arrivare al particolare, in modo da avere la sensazione di approssimarci sempre più al nostro oggetto, incontreremo: primo la bilancia che ci elucida sulla questione generale dei simboli; poi la benda, il simbolo più intellettualizzato (per questo più tardo) indispensabile per dialogare con la realtà proteiforme del potere e della giustizia, che ci rivela la polisemia e ambiguità dei simboli in una filosofia giuridica e politica; e finalmente la spada che indicherà un'uscita possibile alle nostre aporie. Uscita certamente per nuove aporie visto che ci propone una filosofia giuridica e politica simbolica.

La bilancia e la benda non hanno in politica grande fortuna. Nell'antica Cina sembra che la bilancia fosse il simbolo del ministro, dovuto più al non conoscimento della separazione dei poteri, riferendosi certamente ancora alla funzione giudiziale. La benda, nella stessa iconografia romana più conosciuta, è principalmente attributo della fortuna o della morte. In qualche modo entrambe possono essere simboli giuridici. La bilancia e la benda, senza spada, nelle mani di Justitia sono il simbolo romano completo del Diritto [36].

La spada sembra avere una dimensione politica (persino guerriera) più evidente. Il rifiuto della spada nel simbolo romano può voler dire ciò che simbolizza l'introduzione, in questo simbolo, del fedele: la giustizia giuridica dopo lo ius redigere in artem ha un fedele, il pretore il quale non agisce come un giustiziere, né come un poliziotto, ma sotto la cui auctoritas le armi cedono il passo alla toga - cedant arma togae (De Ofl). Quello che non succede con la giustizia eccessivamente politicizzata (si veda l'ostracismo) dei greci.

La spada e, intanto, tradizionalmente considerata un'arma della Giustizia insieme con lo scudo. Antonio Vieira nel XVII, interpreta S. Paolo spiegando che la spada è un'arma d'attacco e lo scudo di difesa e entrambi servono per lottare contro gli altri e contro sé stessi, nel caso in cui la giustizia stesse dal lato contrario [37]. Ai nostri giorni, all'inizio del suo Law's Empire Ronald Dworkin identifica il diritto con la spada e con lo scudo [38].

Il racconto della Bella addormentata fu più volte applicato al Diritto nel nostro tempo: alcuni nostri maestri lo utilizzarono - Rogerio Ehrhardt Soares, François Vallançon, Gomes Canotilho, ecc. [39]. In fondo può simbolizzare il trauma della crescita del Diritto, insanguinato nel suo confronto con la politica (basti pensare alla giustizia rivoluzionaria di tutte le rivoluzioni moderne) a cui fa seguito un tentativo di assopimento e di incistamento in barriere purificatrici che ricordano una foresta di rovi. Ma questa barriera è vinta (o sarà vinta) non da una politica machiavellica e malevola (come quella della regina-strega), ma da una politica amabile che lotta con le armi della giustizia. Nel film di Walt Disney su questo tema [40] l'happy ending (il citato superamento) si realizza attraverso il bacio del Principe con la Principessa dopo la vittoria sul drago (in realtà un'incamazione della regina-strega, la cattiva politica, la politica perfida, anti-giuridica) con la spada della verità.

Il drago, come Asmodeo nella storia di Tobia, non esiste. Così come l'assopimento e la foresta di rovi sono opera del complesso isolazionista della principessa del Diritto. Uccidere il drago significa abbattere la foresta e aprire il cammino al bacio che ricompone l'unità perduta tra diritto e politica, nel simbolo. Unità nella diversità, nell'alterità, nell'identità di ogni membro della coppia. Politica e Diritto, così come il Principe e la Principessa separati, ma promessi dalla culla, sono, alla fine, le due metà dell'Androgino. Ognuno deve essere profondamente ciò che è per poter meritare l'altro: per questo i tentativi di autonomia dalla politica e dalle sue scienze e epistemai sono lodevoli, come corrette sono le preoccupazioni di purificazione del Diritto.

Quando comprenderemo questo simbolismo intenderemo profondamente il dramma dell'attuale Diritto e dell'attuale Politica.

Un consiglio speciale viene dal sapere della strega cattiva del film: l'unica garanzia di vincere il complesso isolazionista e di centrare il cuore del drago è l'amore vero (true love - e questo ci rimanda ad un altro film La Principessa Promessa, dove tale amore resuscita perfino i morti). La stessa preoccupazione sembra incontrarsi nella storia di Tobia e Sara. "E ora non per il piacere io prendo, questa mia cugina, ma con sincerità" dice Tobia quasi a concludere la sua orazione [41].

Antonio Rosmini e Cicerone, vostri compatrioti, facevano derivare la preoccupazione del Diritto dall'inclinazione per l'Amore [42].

Sfortunatamente pochi studiano la filosofia del diritto o la filosofia politica per imparare questo.

Adesso sappiamo qual è il secondo segreto, il segreto completo. Un segreto, alla fine, molto semplice, così semplice che è sotto gli occhi di tutti: il vero amore. Del resto c'è in Portogallo una canzone (certamente ce n'è una anche in Italia) che dice: l 'amore è cieco e vede, non so perché... E contro tutte le aspettative l'Amore come il Diritto è contraddittorio con i sensi:

"L 'Amore è fuoco che arde senza che si veda

E ' ferita che duole e non si sente

E ' contentezza scontenta

E ' dolore che fa perdere il senno senza dolere" [43]

Parliamo dell'Amore o parliamo del Diritto?

Svelando il segreto, altri segreti si profilano.

Paulo Ferreira da Cunha

 

 

NOTE

01. N. LUHMANN, Legitimation durch Verfàrhen, (2a), Neuwid, 1975; Francoforte, Suhrkamp, 1989.

02. N, LUHMANN, A improbabilidade da comunicação, trad. port., con selezione e introduzione di João Pissarra, Lisbona, Vega, 1992.

03. Cfr. per tutti J. HABERMAS, Theorie des kommunikativen Handels, (3a), Francoforte, Suhrkamp, 1985.

04. CICERONE, De Off., 1, 7, 23; Tito LIVIO, Historia, 1, 21, 4; 23 ,9 ,3. In generale cfr, il nostro Peccata Iuris. Do Direito nos livros ao Direito em acção, Lisbona, Edições Universitarias Lusófonas, 1996, p. 67 ss..

05. J. IMBERT, De la Sociologie au Droit: la "Fides" romaine, in Mélanges H. Lévy Bruhl, Parigi, 1959, p. 307 ss,; S. CRUZ, Direito Romano, I. Introdução. Fontes, (3a), Coimbra, Autor, 1980, p. 241, n. 289; D'ORS, Derecho Privado Romano, (7a), Rivista, Pamplona, EUNSA, 1989, p. 150 (dove risulta l'analogia tra simbolo, anello e fides); M. BRETTONNE, Storia del diritto romano, trad.port., História da Diretto Romano, Lisbona, Estampa, 1988, p. 103 et sq..

06. Cfr. A. PAGLIARO, Il segno vivente. Saggi sulla lingua e altri simboli, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1952.

07. Cfr. F. PUY, Tópica Jurídica, Santiago de Compostela, Imprenta Paredes, 1984, p, 261 et sq. e il nostro Arqueologias Jurídicas. Ensaios Jurídíco-Políticos, Oporto, Lello, 1996, p. 50 et sq..

08. L. BENOIST, Signes, Symboles et Mylhes, (7a), Parigi, P.U.F., l994, p. 11 et sq..

09. J. SWIFT, Gulliver's Travels, Londra, Chancellor Press, 1985, p. 44. Cfr. il nostro commento in Problemas Fundamentais de Direito, Oporto, Res, 1988, pp. 148-149.

10. M. SERRES, Le contrat naturel, Parigi, François Bourin, 1990, p. 85 et sq.; M. SERRES, Les origines de la géométrie, Parigi, Flammarion, 1993.

11. Cfr, il nostro Arqueologias Jurídicas, op. cit., p. 170 etsq..

12. J. CARBONNIER, Communication à l'Académie des sciences morales et politiques, 23 Ott. l967, Rev. Trav. Acad. Sc. morales et politiques, 2. e sem., p. 91, apud F. TERRÉ, Introduction générale au droit, Parigi, Dalloz, l99l, p. l.

13. Corroborando il carattere quasi proverbiale di un'affermazione di un politico che segnò per tanto tempo la vita pubblica di un Paese A. BOTELHO, Como o Sr. Jacob enganou o Socialismo, Lisbona, Ediçöes do Templo, 1978, pp. 33-34.

14. PLATONE, La Repubblica, (2a), introd. di Francesco Adorno, trad. it. di Francesco Gabrieli, Milano, Rizzoli, 1984, pp. 140-141 (432d-433d).

15. PLATON, Oeuvres complètes, I, trad. e note di Leon Robin con la collaborazione di M.-J. Moreau, Parigi, Gallimard, 1950 (ristampa 1981), p. 999.

16. E. WIND, La .Justicia platónica representada por Raƒàel, in La elocuencia de los símbolos. Estudios sobre arte humanista, trad, spa. di Luis Millan, p. 101 et sq..

17. Ibidem, p. 101.

18. E. WIND, op. cit., p. 101.

19. ARISTOTELE, Etica Nicomachea, V, 1, 1129 a).

20. Ibidem, V, 2, 1 129 a) in fine.

21. Ibidem, V, 2 et sq.

22. Ibidem, V, 3, 1129 b) in fine.

23. Ibidem, V, 4, 1130 a).

24. I Cor. 13:12.

25. Cfr. A. NOLLAN, Jesus before Christianíty, Darton, Longman and Todd, 1977.

26. Cfr. J. HERVADA, Derecho. Guia de Estudios Universítarios, Pamplona, EUNSA, 1984; G. STEINER, Antigones, trad. port. di Miguel Serras Pereira; Antígonas, Lisbona, Relógio d'Agua, 1995; S. TZITZIS, La Phílosophíe Pénale, Parigi, P.U.F., 1966, p. 69 et sq..

27. Cfr. B. BETTELHEIM, Il mondo incantato. Uso importanza e significati psicoanalitici delle fiabe, trad. it. di Andrea D'anna, Milano, Feltrinelli, l993, pp. 266-297.

28. ULPIANO, Libro primo regularum (D. 1, 1, 10, pr.).

29. ARISTOTELE, Etica Nicomachea, V, 1, 1129 a) et sq..

30. Cfr., v.g., J. VALLET DE GOYTISOLLO, A Encruzilhada metodológica jurídica no Renascimento, a Reƒorma, a Contro-Reƒorma, trad. port., Lisbona, Cosmos, 1993.

31. I. KANT, Kritik der reinen Vernunƒt, B 759, A 731, FN.

32. G. FLAUBERT, Dictionnaire des idées reçues, articolo “Droit”,

33. M. VILLEY, Philosophie du Droit, (3a), Parigi, Dalloz, 1982, p. 84.

34. Cfr, R. DWORKIN, Taking rights seriously, Londra, Duckworth, 1977; J. J. Gomes CANOTILHO, Tomemos a sério os direitos económicos, sociais e culturais, Separata da O Boletim da Faculdade de Direito, Coimbra, 1988; J. CALVO GONZALEZ, El Discurso de los Hechos, Madrid, Tecnos, 1993.

35. H, KELSEN, Reine Rechtslehre, trad. port, di João Baptista Machado, Teoria Pura da Díreito, (4a), Coimbra, Arménio Amado, 1976, p. 376.

36. S. CRUZ, Direito Romano, op. cit., p. 28 et sq.; S. CRUZ, Ius. Derectum (Directum), Coimbra, 1974.

37. Padre A. VIEIRA, Sermão de Santo Agostinho, in Obras completa: do..., Sermões, Oporto, Lello, 1953, vol. III e vol. VIII, p. 213; 2 Cor. 6:7.

38. R, DWORKIN, Law's Empire, Belknap, Cambridge, Mass., 1986, p. VII,

39. R. E. SOARES, Direito Público e Sociedade Técnica, Coimbra, Atlântida, 1969, p. 5; F. VALLANÇON, Domaine er Propriété, Parigi, Università di Parigi II, 1995, vol. III, p. 1055; J. J. Gomes CANOTILHO, Direito Constitucional, (5a), Coimbra, Almedina, 1991, p. 11 (citando Ehrhardt Soares).

40. Sleeping Beauty, USA, 1959, technirama, 75 m., adattamento di Charles Perrault.

41. TOB1A 8: 4-9.

42. A. ROSMINI, Filosofia del Diritto, vol. I, Intra, 1865, n°227 et sq.; CICERONE, De Leg., I, 15.

43. L. de CAMÕES, "Amor é fogo que arde sem se ver", Lírica, Lisbona, Circulo de Leitores, 1984, p. 188 (cf. ed. Estevão Lopes, 1598).